Lo «Zar» di Mozzi: gli ignoti retroscena del caso letterario

Lo Zar non è morto, e quando nacque scatenò mille polemiche. Giulio Mozzi ha resuscitato per le edizioni Sironi un romanzo apparso e scomparso all’improvviso, e non a caso, nella storia della letteratura del Novecento, Lo zar non è morto, scritto da dieci notissimi scrittori alla fine degli anni Venti: Filippo Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli, Antonio Beltramelli, Lucio D’Ambra, Alessandro De Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Viola, Luciano Zoccoli. Presentato da Mozzi come uno dei libri più misteriosi della letteratura novecentesca, in verità, per chi conosce bene la letteratura di quegli anni, è un libro conosciutissimo per le reazioni che scatenò sulla stampa. Cesare Zavattini, giovanissimo redattore dalla Gazzetta di Parma, proprio sui “dieci” intavola una polemica con un redattore de Il Torchio quotidiano filofascista assai noto in Italia. In un articolo al vetriolo del 26 ottobre 1927 Zavattini, prendendosela con quei «troppi galli canterini», scrive che «l’unicità d’ispirazione è, all’armonia non solo apparente dell’opera, matrice indispensabile. Un personaggio legato a più cordoni ombelicali avrà agitatissima esistenza, funambolica, irreale». Tanto più che tra i dieci “incubatori” accanto «al cranio oceanico di Marinetti troviamo il ciuffo discretamente passatista di Lucio D’Ambra».
Zavattini scriveva «raccontini», in polemica con il romanzo tradizionale e le sue fondamenta ideologiche, letterarie e sociali. La notizia poi che il romanzo verrà scritto dai dieci per mero scopo commerciale, fa esplodere il suo veleno contro gli autori e il mercato editoriale che ha già venduto anche i diritti per la traduzione all’estero, guadagnando miliardi e spacciando per capolavoro un libro non ancora scritto. Ecco il commento di Za: «Un film in parole, un fox in lettere, Josephine Baker in sillabe, una “féerie” di banalità esotiche vellicanti, un jazz di frasi, un cocktail di periodi, un disumano inseguirsi di personaggi in cerca di un briciolo di logica e di un pizzico di sentimento».
Il signor Re ribatte a Zavattini sulle pagine de Il Torchio, accusandolo di «inguaribile provincialismo letterario», di «incommensurabile pacchianeria». Re sostiene che l’iniziativa è un avvenimento capace di sostenere «la rivoluzione nelle patrie lettere», come il regime fascista auspicava e difende gli scrittori capaci di guadagnare con le proprie opere d’ingegno, accusando «i noiosissimi Za della patria letteraria» d’invidia e auspicando guadagni miliardari ai «divertenti» scrittori italiani. «Quel giorno - scrive Re - la letteratura italiana avrà clienti su tutta la terra e, forse, qualche capolavoro potrà spuntare all’orizzonte».
Zavattini ribatte sulla Gazzetta di Parma e rimprovera aspramente il signor Re di aver cercato a tutti i costi la polemica, difende la propria posizione provinciale, in una città come Parma dove «non si scrivono romanzi a dieci mani». Sui giornali di allora era vivo il dibattito su Strapaese e Stracittà, incentrata sulla polemica sul provincialismo della nostra cultura italiana. A buttare benzina sul fuoco doveva poi arrivare, quell’anno, il premio Nobel a Grazia Deledda, scrittrice appartata, di una Sardegna ancora fortemente rurale. Re risponde a Za che si può essere provinciali pur abitando a Parigi e che Zavattini, per questo, «ha perso un’ottima occasione per tacere». Za è consapevole di aver attaccato non gli autori ma l’intero sistema editoriale. Siamo alle origini dell’industria editoriale moderna: Einaudi, Guanda e Bompiani nasceranno solo negli anni Trenta. Inoltre Za accusa Re di essere un cacciatore e inventore di polemiche letterarie inutili, e di ergersi a difensore di «sì onorevoli clienti». Za sottolinea che ha consigliato i dieci di bandire dal romanzo l’arte del Manzoni e dei grandi padri «per costruire invece una vicenda adatta al gusto, ahimè, pervertito del nostro tempo», un pubblico di massa che affolla i teatri e decreta il successo per opere di scarsa qualità artistica, e legge milioni di copie di libri mediocri. La polemica si chiude. Re si scusa col redattore della Gazzetta di Parma per aver voluto garbatamente scherzare e ribatte dicendo che «le opere d’arte felicemente riuscite, hanno sempre trovato il pubblico e il successo che meritano». Za ne uscirà scornato: Re è un furbacchione, la polemica serve solo per lanciare il romanzo.

Il 10 giugno 1927, sull’'«Otto Volante», rubrica de La Fiera letteraria che riporta aneddoti su scrittori e pettegolezzi letterari, Achille Campanile scrive sull’iniziativa. «Dice Campanile: Il vero titolo del romanzo dei “Dieci” dovrebbe essere: L’Osar non è morto!». Profetico della realtà di oggi.

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