La zia: «L’ho perdonato, se tornasse lo abbraccerei»

L’edicolante: «Non ce l’ho fatta a esporre le immagini. Qui nessuno dimenticherà mai la tragedia»

nostro inviato a Montecchia

di Crosara (Verona)
I due cagnetti bianchi latrano come molossi: hanno fiutato subito il nemico. La signora Rosina Maso, una donna curva con i capelli grigi raccolti sulla testa, non ancora. Apre con un sorriso dolente il cancelletto e la porta di casa, fa entrare lo sconosciuto senza chiedergli chi è; un'ospitalità di altri tempi, senza catenacci né spioncini. Una sala bassa, con il legno alle pareti e un grande camino. Una bimba siede in silenzio sul divano. Poche parole dalla vecchia zia. E uno sguardo triste che invita l'intruso a lasciarla sola con i suoi ricordi che non passeranno mai.
«Ne ho fatto una malattia, sono stata male per un mese - mormora -. Sì, l'ho perdonato perché il Signore ha detto di perdonare. Però voglio togliere tutto dalla mente. L'ho perdonato col cuore, e se dovesse mai tornare qui lo abbraccerei. Ma ho quasi 80 anni, c’è voluto tanto tempo per accettare quel che è successo. Ero troppo legata alla mia famiglia». La nipotina si alza in silenzio dall’angolo del divano e si allontana chiudendosi una porta alle spalle. Rosina Maso non pronuncia mai il nome del nipote Pietro, figlio di suo fratello Antonio. E nemmeno i nomi delle sorelle del parricida: «Non le vedo mai, non vengono a trovarmi anche se vivono tutte e due qui vicino, a San Bonifacio».
Le cicatrici che si riaprono fanno più male delle ferite. A Montecchia di Crosara quella piaga sanguina ogni volta. L'edicolante più vicina alla chiesa del paese non ha esposto in strada la prima pagina del Giornale con la foto di Pietro Maso innamorato: «Ci avevo pensato, avrei venduto qualche copia in più, poi ho preferito evitare. Meglio di no. È passato tanto tempo. Se ne sente una al giorno di tragedie in famiglia, ma questa è stata la prima e non ce la toglieremo mai di dosso». E anche se la notizia ormai ha fatto il giro delle tv, il paese preferisce che Pietro resti congelato in un passato che non ritorna, senza tracce. La villetta dell'orrore è di nuovo in vendita, un grande cartello è appeso al primo piano, quello del massacro. E su, nel cimitero sulla collina, a fianco della pieve romanica di San Salvatore, pochi fiori secchi vegliano la lapide di Antonio e Maria Rosa Maso.
«L'ho visto al telegiornale, un bel ragazzo alto, proprio lui», esclama la signora Maria, ex titolare del bar di piazza Frutti dove Maso e i suoi amici passavano a bere birra e mangiare la pizza. L'ha riconosciuto subito, anche se sono passati 17 anni: «Sono vecchia, quelli della mia età lo conoscono tutti, l'abbiamo tirato su noi». Il paese chiacchiera senza passione. «Cosa vuole, ormai dopo un po’ escono dal carcere, lavorano, e le trovano sì le morose». «Carbognin ha anche un figlio»: è Giorgio, uno dei tre complici di Pietro. «Sposato?». Sguardo di compatimento: «Al giorno d'oggi...».

«E pensare che i loro genitori sono gente tanto perbene». «Carbognin e l'altro, Cavazza, si vedono ogni tanto in paese, vengono a trovare i genitori quando hanno i permessi». E Maso è mai venuto dalle zie? «Mai visto. Forse è meglio così».

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