Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica
Paolo Fabri, a parte An, lei è l’unico erede del lascito di Anna Maria Colleoni. Così, un’impressione veloce. Sappiamo che non vuole parlare di politica ma l’attualità e l’opinione pubblica lo impongono. Cosa pensa di tutta questa storia di Fini a Montecarlo?
«La madre di Anna Maria Colleoni, Isabella Fabri, era la sorella di mio nonno Alfonso. Anna Maria non era sposata, non aveva figli né altri parenti viventi, a parte me e mia sorella Aurora. In assenza di testamento, saremmo stati gli unici eredi. Per 10 anni non ci siamo più tenuti al corrente delle vicende del lascito ad An. Fino a quando abbiamo appreso dal Giornale la strana storia della casa di Montecarlo. Sono certo che prima o poi si saprà la verità. Personalmente penso che, se venissero confermate le circostanze sinora ipotizzate, non solo la volontà di Anna Maria sarebbe stata tradita, ma anche le legittime aspettative di tutti gli iscritti al disciolto partito di Alleanza nazionale».
Può dirci chi era davvero Anna Maria Colleoni?
«Anna Maria era una donna estremamente riservata e indipendente. Ha vissuto in simbiosi con la madre Isabella e i loro gatti. Amava la sua terra a Monterotondo, coperta di vigne, ulivi e alberi di albicocche, che ha difeso fino alla fine dalla cementificazione. Mi aveva conferito l’incarico di redigere un progetto rispettoso del verde e dell’ambiente, per un’edilizia sociale e a misura d’uomo. Malgrado lo stretto legame affettivo, non ci frequentavamo molto di persona, lei viveva a Roma e noi a Bergamo e Parma. Eravamo sempre in contatto telefonico e abbiamo trascorso insieme molte vacanze estive nella proprietà di Castel Giorgio, soprattutto dopo la nascita delle mie due figlie di cui era madrina. Laureata in Scienze politiche con lode, aveva avuto la possibilità di intraprendere la carriera diplomatica, ma sacrificò le sue ambizioni personali per dedicarsi prima alla zia Elena Fabri, vedova del professore Carlo Marino Zuco, ortopedico di fama mondiale, nella casa di via Paisiello, e alla madre Isabella poi. Viaggiava da Monterotondo a Montecarlo, dove passava tre mesi in estate. Aveva poche amiche, alle quali però era strettamente legata, sin dai tempi della scuola. Però la sua vera passione era la politica, anche se non fu mai un’attivista. Prima il Fuan, poi il Msi e infine An. Penso non si sia persa né un comizio né un articolo di giornale. Aveva la casa completamente invasa dalle copie del Secolo d'Italia che collezionava da decenni. Le piaceva discutere con noi fino a tarda notte di notizie e fatti politici. Era anche un’ottima cuoca, ricordo in particolare la sua crostata di pasta frolla che allietò molte mie merende di adolescente. Era del 1934 e quando è morta doveva compiere 65 anni. L’ultimo anno deve essere stato tremendo per lei: la malattia, la solitudine, ma era una donna molto orgogliosa e non si lamentò mai, né chiese aiuto, sino alla fine. Nei suoi diversi ricoveri in ospedale aveva dato disposizione ai medici di non riferire mai il suo reale quadro clinico, nemmeno a me. Pochi mesi prima di morire, a Pasqua del 1999, andò per l’ultima volta a Montecarlo e in giugno...ci lasciò».
Come andò, effettivamente, la storia del testamento? Se lo aspettava che a lei sua zia preferisse il partito?
«Il testamento fu scritto nel 1997, quando Anna Maria seppe di essere malata, ma soprattutto quando era ancora fermamente convinta che l’onorevole Fini avrebbe determinato la svolta per il partito che per troppo tempo era stato tenuto ai margini delle politica che conta. In un certo senso aveva previsto giusto. L’ascesa di Alleanza nazionale e dell’onorevole Fini è nota a tutti. Comunque, dalla clinica inviò al notaio Spadaro il suo testamento olografo, su suggerimento di un suo stretto conoscente. Alle amiche aveva confidato il contenuto del testamento, ma, quando mi anticiparono le ultime volontà della zia, non volevo crederci. Anche i suoi effetti personali furono spediti al notaio Spadaro. Mentre io personalmente mi sono occupato delle sue esequie e della successiva tumulazione nella tomba di famiglia a Monterotondo, cerimonia alla quale non partecipò nemmeno un esponente politico di An. Francamente pensavo avrebbe lasciato parte del suo patrimonio a una fondazione a tutela dei gatti randagi e una borsa di studio ai figli meritevoli dei membri del partito. Con l’apertura e pubblicazione del testamento ebbi invece la conferma delle voci: Alleanza nazionale, nella persona del suo presidente Gianfranco Fini, era stata nominata erede universale. Non penso che preferì il partito ai nipoti e ai gatti. Penso che avesse un ideale che aveva inseguito per tutta la vita, ma non era riuscita a raggiungere, e volesse dare il suo estremo, tangibile, determinante contributo per “la buona battaglia”».
Cos’era, cosa rappresentava, il fascismo prima, il Msi poi e infine Alleanza nazionale per sua zia?
«Il fascismo non lo ha vissuto pienamente, aveva 9 anni nel 1943, ma attraverso le esperienze del padre Guardino Colleoni, che fu gerarca fascista e non cambiò mai bandiera. Morì quando Anna Maria aveva solo 24 anni. Il Movimento sociale italiano era nel sangue della zia. Aveva un’ammirazione profonda per Giorgio Almirante e per le sue capacità oratorie, ma soprattutto per la sua onestà e coerenza politica. Alleanza nazionale rappresentava lo sdoganamento, la liberazione dalla nostalgia del fascismo, di idee e principi ai quali Anna Maria rimase fedele tutta la vita: Dio, patria e famiglia».
È vero che Anna Maria era amica di Almirante, di Romualdi e tanti altri pezzi grossi del partito? Se sì, può raccontarci qualche episodio?
«Non mi risulta che fosse amica né di Almirante, né di altri pezzi grossi del partito. Li avrà conosciuti, ma non aveva rapporti di frequentazione o amicizia. Era però fiera dell’incontro con l’onorevole Fini che mi raccontò personalmente e di cui hanno parlato tutti i giornali, anche se riportando frasi in romanesco che mi risulta difficile immaginare uscite dalla bocca di mia zia».
Era davvero così «innamorata» di Fini come raccontano a Monterotondo?
«Se per amore si intende fiducia e fedeltà, sì, penso che fosse innamorata di ciò che Fini rappresentava e lo ha dimostrato».
Quel che sta emergendo con la vicenda di Montecarlo (svendita a prezzi stracciati, società off-shore, affitti segreti al cognato di Fini) stride pericolosamente con la buona battaglia a cui si riferiva sua zia, o no?
«La vendita a prezzi stracciati avrebbe di fatto danneggiato gli iscritti ad An, fornendo risorse inferiori a quelle possibili. Ma non noi. Perché, anche se pochi, i soldi sono stati effettivamente versati e messi nel bilancio del partito. Diciamo una “buona battaglia” parziale».
Secondo lei ci sono gli estremi per impugnare il testamento e tornare in possesso dei beni?
«Né io né mia sorella abbiamo mai avuto la possibilità di incontrare l’onorevole Fini, che non fu nemmeno curioso di conoscere i nipoti di questa santa donna. I nostri rapporti sono stati solo con i senatori Pontone e Caruso. Quest’ultimo fu il relatore della legge che abrogò con effetto retroattivo l’articolo 600 del Codice civile (presidente del consiglio D’Alema), norma in base alla quale avremmo potuto impugnare allora il testamento. Impediva infatti ad associazioni non riconosciute (non solo partiti politici, ma anche sette pseudo religiose e più o meno fanatiche) la possibilità di ricevere lasciti ereditari. A tale proposito voglio richiamare le posizioni espresse all’epoca dal notaio Angelo Busani, di Milano, sulle pagine del Sole 24 Ore e riprese in questi giorni dal quotidiano Libero. Il senatore Pontone ci propose allora un accordo in base a una stima, che oggi appare ridicola, del patrimonio che io e mia sorella, anche per rispetto alle volontà della zia, accettammo. Certo è che hanno ancora efficacia due articoli del codice, il 647 e 648, che impongono il rispetto dell’onere imposto dal de cuius per l’erede. In questo caso una “buona battaglia” che non può sicuramente essere una battaglia personale, ma collettiva. Sia io sia mia sorella aspettiamo gli sviluppi della situazione e non escludiamo alcuna azione a tutela della memoria della zia e dei nostri diritti».
È vero che siete stati voi a indicare l’appartamento di Montecarlo al partito perché nel lascito non era stato inserito? Ci può ricordare come andò?
«Il testamento non elencava alcun bene, ma dichiarava Alleanza nazionale erede universale. Ovviamente il senatore Pontone, a nome del partito, ci chiese un dettagliato e preventivo elenco delle proprietà che sapevamo essere nella disponibilità di Anna Maria. Poi hanno fatto inventari, visure, accertamenti, sopralluoghi».
La vicenda del gatto Piumina di sua zia. È vero che lei fu «costretto» ad accollarselo perché il partito non lo voleva?
«Il partito forse non sapeva e comunque non si interessò minimamente dell’esistenza di Piumina. Penso di avere disposto secondo le volontà di Anna Maria affidandola alle amorevoli cure del conte Valentini di Montalfina».
Conferma quel che ha già detto al Giornale sull’appartamento di sua zia, che lei voleva acquistare, e che il partito non volle venderle perché «promesso» a un parlamentare?
«Il Giornale ha riportato la notizia che volevamo acquistare la casa dei Parioli, ma questo non corrisponde al vero, volevamo acquistare la più modesta casa di viale Somalia. Casa nella quale viveva Anna Maria e nella quale erano tutti i suoi ricordi, documenti, fotografie e cimeli di famiglia. Ma era già stata impegnata, a favore di chi non so».
Crede che sua zia se oggi fosse ancora in vita si accoderebbe all’ondata di migliaia di italiani che chiedono le dimissioni di Fini?
«Io ho sempre creduto nei suoi stessi ideali, in una “destra vera e leale”. Sono pronto a continuare la sua “buona battaglia”».
Che impressione le fa vedere il «cognato» di Fini nell’abitazione che fu di sua zia?
«Fortunatamente, io personalmente, non l’ho mai visto».
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