Nel 1939 la Svizzera mobilita il suo esercito per presidiare i confini. È neutrale contro tutti e tale vuole restare. Fra gli arruolati c'è anche l'artista di strada Lubo Moser, un giovane jenisch, etnia nomade, zingaro, in breve, ma svizzero quando la patria decide in tal senso. Mentre Lubo è soldato, il governo gli porta via però i tre figli piccoli: c'è un programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada appena varato, che in pratica consiste nel metterli in orfanotrofi più o meno mascherati da istituti per l'infanzia e/o darli in adozione a seconda dell'età, dei caratteri, delle richieste e che ha come obiettivo non dichiarato il risolvere per estinzione forzata la questione rom, una sorta di eugenetica giuridica... Nel caso dei piccoli Moser, la gendarmeria elvetica non ha la mano leggera, una prassi, comunque, non un'eccezione: la madre, che ha tentato di opporsi, è stata lasciata esanime sulla strada ed è poi morta per le percosse ricevute.
Avvertito da un cugino di quanto è accaduto, Lubo diserta, ma invece di passare il confine con i documenti falsi che questi gli ha procurato, decide di rimanere nel Paese per cercare di ritrovare i bambini, una femmina e due maschietti. Imbattutosi in un ebreo austriaco, Herr Reder, che ha messo su un lucroso contrabbando di oggetti e di denaro derubando i suoi correligionari in fuga dal nazismo, Lubo lo uccide, ne assume l'identità e per tutta la guerra e sino alla fine degli anni Quaranta gira per la Svizzera cercando fra le varie associazioni Pro Juventute create dal governo e sovvenzionate dai privati, dove i bambini siano potuti finire. Cerca anche di rifarsi una vita, con una giovane italiana trasferitasi in Canton Ticino e dalla quale ha un figlio.
Nel 1951, la polizia svizzera però lo arresta in quanto Reder, sul quale pendono le denunce che nel dopoguerra lentamente hanno visto la luce nei suoi confronti a opera dei parenti o dei sopravvissuti di chi a suo tempo gli aveva affidato i propri beni... Assolto dall'accusa di omicidio per insufficienza di prove, ma condannato a dodici anni per falsa identità, furto, contrabbando et cetera, impossibilitato a riconoscere il suo ultimo figlio per la morte della madre e l'ostilità sociale nei suoi confronti, alla fine Lubo baratterà la confessione del delitto commesso in cambio di un'indagine sulla scomparsa dei suoi tre bambini e del sostegno economico per il quarto e ultimo...
Da questa storia vera, che negli anni Settanta porterà il governo svizzero a riconoscere l'errore e l'orrore di quella legge e a pagare un'indennità a chi ne era rimasto vittima, e dal romanzo a essa ispirato, Il seminatore, Giorgio Diritti (già autore del pluri-premiato Volevo nascondermi, sulla vita del pittore Antonio Ligabue) ha tratto Lubo, ieri in concorso, tre ore che si reggono in gran parte sulle spalle dell'attore tedesco Franz Rogowski, che lo impersona sullo schermo.
Fatta salva la dignità e la drammaticità del tema, il film fatica tuttavia a decollare, perché troppi sono i fili intorno a cui la storia si sviluppa. E per quanto si soffra con il suo protagonista, non scatta per lui l'empatia...
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