Il programma dell'Unione non ha avuto quel successo di critica che Romano Prodi certamente si aspettava. Anzi, le contestazioni più serie sono subito arrivate proprio da quelle aree che in questi mesi hanno mostrato maggiore attesa nei confronti del ricettario alternativo alla Casa delle libertà. Penso in primo luogo alle valutazioni di giornali come Il Sole 24 Ore e come il Corriere della Sera che non hanno nascosto dubbi, critiche e un generale senso di delusione. Valga come esempio il giudizio espresso su quello che Dario Di Vico definisce «il provvedimento bandiera» del centrosinistra, cioè il taglio di cinque punti del cuneo fiscale, a proposito del quale si chiede dove mai si troveranno i soldi per finanziarlo e quale possa essere la sua effettiva efficacia.
Ma non poteva che essere così. Messe nero su bianco le intenzioni del centrosinistra hanno rivelato tutta la loro ambiguità. Certo, la spiegazione più facile è quella proposta ormai da molto tempo: un'alleanza che va da Clemente Mastella a Fausto Bertinotti, che raccoglie tanti partiti e tante sigle e che, oltretutto, cerca di rappresentare anche un variegato mondo di interessi sociali, produttivi e finanziari, non aveva alcuna possibilità di giungere ad un'efficace sintesi politica. Resta essenzialmente uno schieramento che ha lo scopo di vincere le elezioni, rimandando al dopo le decisioni su cosa e come realizzare quanto è scritto nelle interminabili pagine del testo a cui è stato dato l'ambizioso titolo «Per il bene dell'Italia». Dunque un programma per forza vago, sfumato in molte sue parti per non scontentare nessuno dei suoi sottoscrittori. E in ogni capitolo è fin troppo facile notare la difficoltà di una sintesi tra visioni spesso opposte.
Con il risultato che l'elettore disposto a leggere questo volume di 281 pagine ha difficoltà a capire cosa effettivamente farà il governo che Prodi ambisce a guidare. E dove invece lo capisce - basta leggere le stroncature di Angelo Panebianco sulla politica estera e di Ernesto Galli della Loggia sull'istruzione, sul Corriere - può solo trovare conferma della parola chiave usata qualche giorno fa dal prof. Domenico Fisichella per motivare la sua adesione alla Margherita, cioè conservatorismo. Non c'è nulla o quasi di quella sinistra moderna a cui hanno impresso il loro marchio leader come Bill Clinton o Tony Blair che hanno cercato di calibrare una strategia sui grandi nodi della crisi del Welfare, delle necessità proposte dalla globalizzazione e dei valori da difendere.
In altri termini non c'è un'ossatura riformista, un'idea di innovazione da contrapporre alle scelte compiute in questi anni dalla Casa delle libertà che, per quanto discusse, hanno prefigurato delle svolte sulle voci più importanti, come il Welfare, il mercato del lavoro, il fisco, l'istruzione, la politica estera e l'Europa. Qui c'è un vuoto talmente profondo che è difficile riversarne la responsabilità sul potere d'interdizione e di condizionamento di Bertinotti e della sinistra alternativa. C'è qualcosa di diverso e di più.
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