«Chi desidera procurare il bene altrui ha già assicurato il proprio», recita unantica massima di Confucio. Un sillogismo su cui la comunità silenziosa che abita e opera nella Chinatown milanese ha costruito una piccola fortuna. In tempi di crisi, infatti, la parola dordine è una sola: risparmiare. I cinesi lo hanno capito prima degli altri, e in pochi anni hanno trasformato il loro quartier generale, Paolo Sarpi (a Milano 3.600 imprese hanno titolari cinesi, di cui il 20% in zona Sarpi), in un villaggio dello shopping a basso costo, dove si può trovare di tutto - dal telefonino al parrucchiere, dal sarto alla lavanderia - e spendere pochi spiccioli. Chiudendo un occhio sulla qualità.
Borse in pelle a trenta euro, abiti a dieci, occhiali da sole a cinque, piega ad appena sei. Benvenuti nel paradiso del low cost, un immenso bazar di prodotti e servizi a metà prezzo che fa concorrenza (sleale, secondo alcuni) ai negozi storici del centro. Qualche esempio? All'angolo con via Messina, le vetrine di «Shun li» sfoggiano sandali con strass ad appena 10 euro, scontrino regolare. Più avanti, al civico 23, gli occhiali da sole di «Changhong Trading» costano quanto un cappuccino: 5 euro. Mentre in via Giordano Bruno il «Dtm Sas», impero degli elettrodomestici, offre frigoriferi a 259 euro e lavatrici a 249 euro: un terzo della media di mercato. E si potrebbe continuare allinfinito: biancheria intima venduta al chilo, tintorie a 1 euro al capo, abiti per le occasioni speciali che di speciale hanno solo il prezzo: dai 5 ai 10 euro. Ma il vero business del Sol Levante è lalta tecnologia. In via Rosmini e dintorni, pullulano i negozi cinesi che in meno di unora, per 50 euro (in un Apple store non ne bastano 200), riparano computer, telefonini e i-phone («i ricambi sono fabbricati in Cina o Taiwan», spiegano due ragazzi al bancone). Alla Apple mettono in guardia: «I materiali sono scadenti, spesso contraffatti». Ma ai clienti poco importa: basta che funzionino. Ben diverso il parere dei commercianti di via: «Il problema è linvadenza dei grossisti che hanno snaturato il quartiere facendo scappare i grandi marchi. Che ora con la pedonalizzazione stiamo cercando di recuperare - spiega Francesco Novetti, erborista e presidente dei commercianti Sarpi Doc -. Restano una ventina di botteghe storiche, ma la convivenza non è semplice. Come se non bastasse, molti grossisti, senza avere i permessi per farlo, hanno cominciato a vendere al dettaglio agli stessi prezzi, rubando clientela ai negozianti italiani». Detto questo, ai cinesi bisogna riconoscere due meriti, osserva Novetti: laboriosità e flessibilità. «Un negozio di computer in sei mesi può trasformarsi in un bar».
E non finisce qui. Se prima il commercio cinese era circoscritto nei confini di via Sarpi, Canonica e Bramante, adesso l'universo discount con gli occhi a mandorla si è allargato a macchia dolio da viale Monza ai Navigli. Lo sanno bene i ragazzini che, per farsi bastare la paghetta, acquistano i programmi del pc e della playstation negli empori cinesi di via Procaccini e viale Padova. Lo sanno le giovani coppie, che in via Vitruvio, a pochi euro, si fanno confezionare abiti su misura. E persino le signore della middle class, che hanno scoperto che una messa in piega, in un salone cinese aperto 24 ore su 24, costa appena sei euro, otto con il taglio. Contro i 40-50 di un coiffeur e italiano. A lamentarsi sono soprattutto i negozi di abbigliamento e gli esercenti, dai parrucchieri ai centri estetici. Che non si capacitano di come un massaggio sia offerto a 20 euro contro i 60-65 di un centro olistico italiano. «Estetisti non ci si improvvisa - commenta Laura Sacerdoti, titolare dell'istituto di bellezza San Celso -.
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