
Per Massimiliano Burelli, amministratore delegato di Cogne Acciai Speciali, «l'acciaio, declinato in tutte le sue infinite applicazioni, non è solo un materiale strategico ma è il barometro dell'avanzamento economico e tecnologico di un Paese». Del resto, la capacità produttiva di acciaio garantisce una posizione di forza sullo scacchiere globale e in periodi di tensione geopolitica l'indipendenza produttiva ne esalta l'importanza strategica.
Dagli impianti del gruppo siderurgico valdostano escono prodotti usati nell'aerospazio, nella difesa e nel nucleare, settori in cui la domanda nei prossimi anni è destinata a superare l'offerta. A differenza dell'Ilva, l'azienda si occupa di acciaio prodotto da forno elettrico, non da altoforno come lo stabilimento di Taranto. «Sono due metodi produttivi completamente diversi, la catena di approvvigionamento di materia prima è diversa, il tipo di cliente è diverso».
Il settore dell'acciaio è così variegato?
«L'acciaio è come il tessuto. Quando parliamo di tessuti, possiamo riferirci alla viscosa, ovvero il nylon, sia alla vicuña, che è il cashmere più pregiato. Nel mondo dell'acciaio, il laminato mercantile, piuttosto che il tondino da cemento armato o l'acciaio inossidabile, sono sempre acciaio però hanno un livello di complessità produttiva e di costo della materia prima, del processo nonché del prodotto finito, che sono assolutamente incomparabili».
Esiste una ricetta strategica valida per tutti?
«Vanno trovate le giuste condizioni dando per scontato che la deglobalizzazione è galoppante e che sempre di più avremo economie regionali protette. L'Europa deve poi prendere consapevolezza che il rottame è una risorsa strategica. Invece, solo l'anno scorso hanno lasciato l'Europa, parlo di tutti i tipi di acciaio, oltre 18 milioni di tonnellate, Sono uscite dall'Unione Europea per andare altrove. Il 54% è finito in Turchia che poi è tornata da noi a farci concorrenza».
A proposito di concorrenza straniera, i cinesi fanno paura?
«I cinesi hanno una buona preponderanza di produzione da alto forno, quindi come l'Ilva però anche loro stanno riconvertendo gli impianti al forno elettrico. Resta il fatto che nel 2024, nel mondo, sono stati prodotti circa 1,8 miliardi di tonnellate di acciaio di tutti i tipi, acciaio inossidabile, acciaio da costruzione, acciai speciali. E di questi, un miliardo di tonnellate sono state fatte in Cina».
Ma come si rende competitiva l'industria italiana dell'acciaio?
«Uno dei temi centrali è quello dell'energia, per questo abbiamo firmato con Cva il primo accordo di Energy Release della regione. Noi miglioreremo l'efficienza energetica delle attività produttive, mentre Cva investirà in quattro nuovi impianti solari in Sicilia, con oltre 20 megawatt di capacità e 593.000 megawatt di energia rinnovabile entro il 2026. Si tratta di un vantaggio competitivo che ci permette di migliorare la nostra posizione a livello di costo dell'energia per un terzo del nostro fabbisogno. Un esempio di collaborazione, concreta e tangibile, tra realtà industriali locali che può essere replicato».
Torniamo ai dazi. Rispetto agli annunci del Liberation Day del 2 aprile la Casa Bianca sembra aver mostrato segnali di distensione, anche per tamponare l'effetto boomerang sull'economia Usa della guerra commerciale. È più ottimista?
«Io vedo quello che è successo in Uk dove sono riusciti, nel mondo dei metalli, a portare a zero il dazio temporaneo che era stato messo. Se si vanno a vedere i dettagli dell'accordo, non c'è niente di trascendentale, quindi sono fiducioso che i dazi reciproci tra Europa e Stati Uniti vengano discussi in maniera chiara e concreta come Europa. È importante farlo come Europa, non come singoli Stati. Gli Usa hanno una produzione di 80 milioni di tonnellate, sul totale di 1,8 miliardi di cui parlavamo prima. Quindi hanno sicuramente necessità di importare. Va fatto con una logica regolamentata e che sia, per quanto possibile, di buon senso. Ragionare con un'ottica dogmatica non aiuta, bisogna ragionare in modo pragmatico. Fermo restando che quello che è successo dal Liberation Day a oggi ha minato il mercato perché tutti sono in attesa di capire che cosa succederà».
L'incertezza sta ancora complicando la catena di approvvigionamento?
«I tempi tecnici per un prodotto che deve andare negli Stati Uniti, sono di circa sei settimane di produzione più altre quattro settimane di viaggio. In dieci settimane, se tu adesso sei duty free e alla settima settimana il dazio diventa del cento per cento e tu quando attracchi al porto americano devi pagare quello. E farebbe un'enorme differenza. Abbiamo prodotti che vendiamo a quaranta euro al chilo e, alla fine avere o non avere il 25% di dazio sono dieci euro al chilo.
Noi siamo esposti direttamente negli Stati Uniti solo per il 10%, però ci sono tanti nostri clienti che fanno lavorazioni e il materiale poi alla fine va a finire dall'altra parte dell'Atlantico e quindi, finché non ci sarà chiarezza su un quantum, diventa davvero difficile che si riprenda un comportamento di acquisto in qualche modo normale».
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