ACHILLE SERRA

«777 fa ventuno, arriva la volante non c’è nessuno». La canzone di Ornella Vanoni ricorda il primo numero telefonico d’emergenza creato dalla Squadra Mobile di Milano, un punto di riferimento essenziale per la cittadinanza ed un numero che riporta alla memoria anni - tra il Sessanta e il Settanta - di violenza terribile. «Nessun poliziotto a quel tempo voleva lavorare a Milano. Quando, nel 1968, la scelsi come sede - lasciando Roma, dove sono nato - mi presero per un incosciente. A Milano si viveva in un clima di paura collettiva», racconta Achille Serra.
Quale ambiente ha trovato?
«In Questura ho incontrato uomini di grande valore per la passione, lo spirito di sacrificio, la capacità professionale. Uomini che, pur facendomi piangere di rabbia in certi momenti, mi hanno guidato, fatto crescere e riflettere. Penso a Mario Nardone, ad Enzo Caracciolo, ad Antonio Pagnozzi, responsabili dalla Mobile. Penso ad Ernesto Panvini, promosso per meriti straordinari per aver catturato il bandito Cavallero, un uomo forte di carattere, che lavorava 22 ore su 24, limitandosi a riposare qualche ora su un lettino che aveva fatto mettere in ufficio. Per tutti - agenti, funzionari e dirigenti - il lavoro non aveva orari, feste o domeniche».
Nel suo libro, pubblicato lo scorso anno da Bompiani, «Poliziotto senza pistola», lei ha avuto parole di sentita riconoscenza per il maresciallo Ferdinando Oscuri, un poliziotto che è rimasto nella memoria dei milanesi.
«Oscuri era la Squadra Mobile e la malavita lo temeva e lo rispettava. Sapeva, senza sbagliare mai, in quale ora e in quale giorno ci sarebbe stata una rapina o un furto. Una volta ordinai ad Oscuri di andare a casa a dormire perché aveva trascorso due giorni e due notti senza abbandonare il lavoro. Non mi rivolse la parola per tre giorni. Pensava che volessi estrometterlo dall’indagine che stava conducendo. Era coraggioso, deciso, e possedeva un’umanità commovente. Forse mi sbaglio non essendo più poliziotto, ma una dedizione simile oggi non esiste più».
Si avverte nelle parole di Serra un’impalpabile emozione, un accento d’autentica gratitudine, come se stesse rivedendo gli uomini che furono allora con lui. Pare impossibile pensare che a Milano vi sia stato uno scenario di tanta criminalità...
«Una criminalità senza pari: quella della banda della Comasina, dei Vallanzasca, degli Epaminonda, di Joe Adonis, di Turatello, legato a Frank Coppola, (non dimentichiamo che a Milano è stato arrestato Luciano Liggio), la città dove crescevano come funghi le finanziarie mafiose per riciclare il denaro, la città dove sono nati il movimento studentesco, le Brigate Rosse, della strage di Piazza Fontana. Per non parlare dei sequestri di persona dal 1973. In dieci anni ce ne furono, in città e provincia, circa 140. Si viveva nel terrore. La gente la sera non usciva più, le rapine avvenivano nei ristoranti, a teatro, nei cinema. Gli industriali si munivano di guardie del corpo. Il sabato pomeriggio si rischiava di trovarsi in una battaglia tra polizia e studenti».
Lei fu tra i primi a giungere a Piazza Fontana.
«Un momento spaventoso, il peggiore vissuto a Milano, il più impressionante della mia vita e che avrebbe portato all’assassinio di un altro mio amico, il commissario Mario Calabresi. Quando mi sono trovato dinnanzi ad una tragedia di simili proporzioni - i morti, lo strazio dei feriti, dei parenti, la commozione della gente - ho definitivamente rinunciato all’idea di tornare a Roma per fare l’avvocato ed ho continuato questo lavoro».
A quei tempi non tutti stavano dalla vostra parte...
«Eravamo completamente soli. Il governo non sapeva neanche che esistessimo, si chiedeva il disarmo della polizia, i manifestanti se ci potevano rompere le ossa lo facevano con molto piacere...».
Poi però non le sono mancati i riconoscimenti, la gratitudine dei cittadini.
«Il milanese guarda con sospetto il romano per la sua fama di essere un lavativo, un fanfarone, ma se capisce che lavora sul serio, ti adotta. Io sono stato adottato da Milano. Vi sono rimasto per ventidue anni e faccio ancora la spola con mia moglie tra Roma e Milano, dove lavora una delle mie figlie».
L’episodio che l’ha commossa di più?
«La liberazione dell’ingegner Carlo Lavezzari, un industriale sequestrato da un efferato criminale calabrese che sotto gli occhi dei complici lo picchiava senza ragione, a sangue, sul letto dove era tenuto in catene. Mi chiamava papà, pur avendo più anni di me».
Il delinquente più ripugnante?
«Epaminonda, l’autista di Turatello. Uccideva gratuitamente, non per difendersi, e senza affrontare l’avversario. Ha compiuto circa quaranta delitti. Uno spirito criminale che non ho mai riscontrato in altri».
Oggi esiste un altro tipo di criminalità. Ma è cambiata anche la polizia.
«La polvere della droga ha provocato una polverizzazione della criminalità. Allora i delinquenti avevano rispetto di noi, si fidavano di Oscuri e di me e ciò serviva alle indagini. Oggi le cose sono cambiate. La droga non consente più di ragionare e obbliga a compiere un furto per procurarsi i soldi della dose, sempre che non si ammazzi la madre o il padre. Si è verificata inoltre un’immigrazione smodata, incontrollata, sotto il segno di una solidarietà espressa a chiacchiere. Sono giunte etnie di persone, non intendo ovviamente generalizzare, che ti scannano per cento euro. Gente senza soldi, senza lavoro, senza casa, costretta a compiere reati per vivere. In queste condizioni come si può effettuare un’indagine? Se, per caso, si riesce a catturare il ladro o lo scippatore, dopo due ore è libero. La criminalità che oggi fa paura è quella di strada. Non c’è difesa. Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda, devo dire che oggi si è verificato un salto di qualità professionale nella polizia, dovuto alla tecnologia e le donne hanno dato un contributo non indifferente».
Dottor Serra, lei è stato tra i servitori dello Stato di maggior spicco e notorietà. Ha diretto la Squadra Mobile di Milano, la Digos e la Criminalpol, le questure di Sondrio, Cremona, il Servizio centrale operativo, è stato questore a Milano nel 1993, Vice Capo vicario della Polizia, prefetto di Ancona, Palermo, Firenze, Roma e ora è Alto Commissario per la Corruzione. Come si descriverebbe?
«Mi sento fiero di quanto ho fatto senza essere mai stato l’uomo di nessuno.

La carriera me la sono sudata, rischiando la vita in prima fila, a differenza di altri che non hanno mai lasciato il letto di casa. La mia famiglia ha capito i sacrifici, la lontananza da casa che il lavoro comportava».

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