Addio Socrates

Addio Socrates

Era il cinque di luglio dell'Ottantadue, la canicola di Barcellona aveva incendiato boschi e football. L'Italia di Bearzot era passata in vantaggio sul Brasile di Santana con un gol, il primo di un pomeriggio magico al Sarrià, realizzato da Paolo Rossi. Sette minuti dopo, Arthur Antunes Coimbra detto Zico alzò appena la testa e vide l'ombra lunga del suo collega sfilarsi sulla destra, appoggiò il pallone lungo una traiettoria velenosa per la nostra difesa, Scirea cercò di intuire. Apparve, allora, correndo sui trampoli, Socrates, sembrava un fenicottero che sbattesse le ali prima del volo, restò invece saldo sul prato verdissimo, la sua falcata da mezzofondista conservò lo stesso ritmo, calciò con potenza, in diagonale ma verso il primo palo, beffando, sul tempo e sull'idea, Zoff. Dino cadde, sgonfiandosi goffamente con le gambe aperte, il pallone finì in rete, passandogli di fianco, sembrava l'inizio di un carnevale brasileiro. Vennero altri gol, fu la vittoria esaltante degli azzurri verso la semifinale, fu la tragedia del Sarrià per i verdeoro che avevano già prenotato l'albergo di Madrid. Socrates lasciò quei fotogrammi, come i suoi colpi di tacco, le chele di un gambero lento e velenoso, Brera li definiva "scarengie" per l'apertura ambigua del compasso dal bacino, una loffia insomma. Era un trottapiano, era un medico che giocava a football, decise di farsi crescere la barba per accentuare l'aria da filosofo e da asceta, aveva idee politiche comuniste, leggeva Gramsci e parlava di Castro e del Che. Suo padre decise di chiamare i figli con quei nomi improbabili ma di fama, Socrates e poi Sofocles e poi Sostenes e poi Rai.
Socrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Olivares era alto, lungo, lento come il suo cognome intero. Ha chiuso la sua esistenza alle quattro e trenta di notte in una clinica paulista, l'Albert Einstein, una infezione intestinale lo ha stroncato al quarto ricovero. Aveva 57 anni, il suo fisico era stato graffiato dall'alcool e dal tabacco, la sua vita non è stata di rinunce, di rifiuti forse a regimi e sistemi autoritari, comunque vissuta.
Non è stato un fuoriclasse, un fenomeno mai, ma un artista di certo, non ha mai vinto titoli mondiali con il suo superbo Brasile, uno dei più forti della storia dopo la Seleçao di Pelè, ma a San Paolo la storia del Corinthians è la storia di Socrates, tre campionati vinti, l'idea della Democrazia Corintiana, un collettivo di spogliatoio che decideva ritiri, dieta, orari di allenamento, l'autogestione nell'epoca difficile, grigia, acida del Paese.
La primavera paulista è un ricordo antico, come l'immagine del miliardario Socrates steso sull'erba di un campo di allenamento italiano mentre osserva, ascolta, cerca di capire quello che gli stava ronzando attorno, la famiglia Pontello, Allodi, Agroppi, l'Italia di Firenze, la città della cultura e dell'arte, dove vivere e non sopravvivere.
Non era roba per lui, non era nostalgia di samba e di caipirinha, era voglia di altro, di fumo, di birre, di letture, di un football meno aspro, meno ossessivo e ossessionante, in breve la sua vita, il suo calcio, lento, imprevisto, imprevedibile. Ai tifosi viola non garbava più quel barbuto indolente che tenendo in mano un libro non esaltava la curva, il trampoliere era diventato il Dottor Divago, sei gol in tutto non fecero storia e appena cronaca.
Accadde anche che il suo cuore prendesse a battere stranamente, si arrivò a temere il peggio, aritmia, pericolo di infarto, Socrates portava la mano al petto durante l'inno brasiliano, era un gesto comune a tutti, di fede al Paese, alla sua bandiera, all'"ordem e progresso", si pensò che fosse, nel caso suo, un desiderio di protezione. I maligni capirono, vedendolo giocare, che il cuore del Dottore funzionava come i suoi piedi, delicati, perfetti.
Tornò a casa, il Brasile, a Rio con Zico nel Flamengo, poi nel Santos, nel Botafogo indossò la maglietta ma non giocò mai, andò poi a concludere, imprevedibilmente, la sua carriera, con un contratto di un solo mese come allenatore giocatore, in un piccolo club inglese, il Garforth Town, una enclave brasiliana che ospitò anche Careca e Carlos Alberto Torres. Il suo debutto avvenne davanti a milletrecentoottantacinque spettatori, per il Dottore che conosceva il Maracanà era la vera, giusta scelta di vita.
Lo avevo visto e sentito opinare in tivvù, di calcio e di altro, altre immagini curiose arrivarono da Rio, palleggiava, con la pancia che gonfiava la maglietta corintiana, insieme con il presidente Lula. Fotogrammi allegri prima che il respiro tornasse a farsi affannoso. Un'ambulanza lo ha trasportato in ospedale.

Il Dottore non portava più la bandana a tenere i capelli mossi e d'argento, gli occhi erano ormai asole chiuse. Non riusciva più a sorridere. Guardava soltanto il cielo. Come al Sarrià di Barcellona, al minuto dodici del cinque luglio dell'Ottantadue.

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