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Adesso però qualcuno spieghi all’Italia del rugby che si deve anche vincere

Azzurri vicini all’impresa contro l’Inghilterra: finisce 19-23 una partita che si poteva portare a casa. E che invece abbiamo perso per i soliti errori

Adesso però qualcuno spieghi all’Italia del rugby che si deve anche vincere

Roma - Mai così vicini alla meta, mai così vicini al miracolo. Eppure anche questa volta l’Italia del rugby dovrà accontentarsi di piacere, non di vincere. Parisse e compagni erano stufi degli applausi a vuoto, contro l’Inghilterra volevano finalmente il risultato, quella che sarebbe stata la prima vittoria della storia azzurra sulla nazionale della rosa. E invece dovranno ancora aspettare e dovranno stancarsi ancora di più a sentire il solito ritornello, quello di un’Italia del rugby che sa lottare ma che si trova sempre con un pugno di mosche in mano.

D’accordo, l’Inghilterra non è l’Irlanda, è pur sempre la squadra vicecampione del mondo, ma quella vista in campo ieri al Flaminio, oltretutto decimata dagli infortuni, era probabilmente l’Inghilterra più debole mai incontrata dagli azzurri. Anzi, uscendo dallo stadio romano, ci si chiedeva quando mai sarebbe capitato di ritrovarci di fronte un’Inghilterra così, quando mai potrà capitarci di andare così vicini all’impresa, a soli 4 punti dal risultato storico. E questa volta storico per davvero. Ma ormai la nazionale di rugby manda in onda sempre il solito film. E alla fine ci si ritrova a raccontarci e a scrivere sempre le solite cose: il colpaccio sfiorato, la sconfitta onorevole, il sarà per la prossima volta.

L’Inghilterra sa di non essere al top, il ct Ashton (ex mediano di mischia di Roma e Milano negli anni Settanta) raccoglie i cocci della squadra clamorosamente rimontata in casa dal Galles otto giorni fa, e la consegna è quella di ottimizzare al massimo ogni occasione. Wilkinson non ci pensa due volte a piazzare tutte le volte che ne ha l’occasione e alla fine la scelta pagherà.

L’Italia, poi, dà subito una mano agli inglesi. Tre minuti di partita e siamo già sotto: gli azzurri si fanno rubare una touche, palla a Wilkinson, calcetto a seguire che l’apertura inglese raccoglie tra l’indifferenza della nostra difesa per poi allargare sull’ala Sackey che deposita oltre la linea l’unico pallone giocabile ricevuto in tutta la partita.

Sette a zero e quasi non c’è stato nemmeno il tempo di sedersi in tribuna. Per fortuna David Bortolussi, il franco-friulano a cui sono affidati i nostri calci, non è quello di una settimana fa a Dublino e questa volta ci tiene incollati all’Inghilterra. Anche se rovina tutto facendosi intercettare un calcio da Wilkinson al quarto d’ora, da cui nasce la palla della seconda meta inglese firmata da Flood. E Johnny Wilkinson trasforma anche questa volta tagliando lo stratosferico traguardo dei 1.000 punti in carriera con la nazionale, empireo raggiunto solo da altri due mostri sacri nella storia del rugby, il gallese Neil Jenkins e Diego Dominguez.

È l’uno-due che potrebbe tramortire gli azzurri, anche perché il piedino di Wilkinson arrotonda il bottino e chiude il primo tempo sul 20-6 per gli inglesi. Ma la ripresa ha tutta un’altra faccia. L’Inghilterra praticamente non c’è più: macchinosa, fallosa, imprecisa, nessuno che riesca a fare arrivare un pallone al gigante Vainikolo, l’incubo della nostra vigilia che invece a Roma passa inosservato in mezzo a tanti altri turisti. Peccato che l’Italia non sappia approfittarne, nonostante la sorprendente supremazia territoriale. Palla quasi sempre in mano agli azzurri, ma gioco elaborato, alla ricerca di un break che non arriva mai, con un mediano d’apertura, Masi, che ha usato i piedi tre volte in tutta la partita, per giunta sbagliando due dei calci tentati. Difficile cercare una soluzione quando ci si deve affidare sempre e soltanto al cuore dei Bergamasco, a un fuoriclasse come Parisse e a pochi altri all’altezza della situazione. Tra i quali, questa volta, va inserito anche l’onesto Bortolussi che dopo il mea culpa irlandese non ha fallito un solo piazzato a sua disposizione chiudendo a 5 su 5.

Così, solo quando il ct Mallett mischia le carte, togliendo gente ormai sfinita, si vede qualcosa di nuovo, persino un calcio in touche di Marcato, entrato proprio al posto di Masi. Cambia l’Italia e cambia anche l’Inghilterra: Ashton offre la standing ovation a Wilkinson e si affida a Danny Cipriani, l’astro nascente, l’erede designato del grande Johnny. E proprio all’oriundo italiano, stellina ventenne dei London Wasps, tocca in sorte di riaprire la partita, regalando un intercetto a Simon Picone (un altro dei nuovi entrati) che vola in meta. È il 19-23 che riapre improvvisamente la partita. Il Flaminio s’infiamma ma mancano solo 5 minuti, gli inglesi si ricordano almeno come si fa a insabbiare la partita e salvano il risultato, ma non la faccia. L’Italia si mangia le mani e si consola con un dato statistico: su 14 sconfitte contro gli inglesi (in 14 incontri) è almeno la più lieve, meglio del 27-20 dei mondiali del ’95.

Se può servire, accontentiamoci.

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