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Aiutare sì, ma senza demagogie

Sì, è vero, «il bene va anche fatto bene». Ha ragione Paolo Del Debbio - l’altro giorno su queste pagine - a esortarci a migliorare, a dare sempre il meglio di noi persino in una causa sacrosanta come quella della destinazione ai Paesi poveri di una quota decimale del Pil. In passato, troppe iniziative di solidarietà pur mosse da ottime intenzioni non hanno raggiunto lo scopo prefissato, quando non si sono rivelate dannose o addirittura favorevoli a chi non ha bisogno di alcun tipo di aiuti. Ma c’è un ma. Come Del Debbio ben sa, nessuno è perfetto e non esiste un’azione, anche la più sana o santa, che non abbia in sé un margine più o meno ampio di ambiguità. È così anche nel caso del Live 8 andato in scena sabato scorso in quattro Continenti. Oltre a quelli che si potranno misurare fra qualche tempo - ma già nelle scorse settimane qualche risultato della pressione sul G8 si è vista con la cancellazione di 40 milioni di dollari di debiti dei Paesi poveri - il primo effetto virtuoso di questo evento è l’aver riportato l’attenzione sullo stato di un Continente dimenticato, ora che da qualche anno la dialettica sullo sviluppo globale e sulla convivenza possibile tra i popoli corre sull’asse Est-Ovest anziché, com’era un tempo, su quello Nord-Sud. Con tutti i limiti che possiamo riconoscere a Geldof, Bono e soci, oggi siamo qui a discutere di come aiutare l’Africa.
Per dirla a spanne esistono due teorie: una più assistenzialista, l’altra che vede nel commercio la leva della rinascita del Terzo mondo. Purtroppo, però, nemmeno il mercato è infallibile. Nel rapporto con il Sud, l’Occidente progredito ha generato colonialismo, guerre più o meno preventive, sfruttamento della manodopera come dimostra l’imbarazzante - e forse non unica - vicenda dei palloni di calcio prodotti nei bassifondi della povertà da un’importante multinazionale sportiva. Chi è stato per qualche ragione nei Paesi poveri sa che lo sono talmente da mancare delle più elementari condizioni di sopravvivenza come il cibo, l’igiene primaria, l’acqua potabile, le fognature: adagiati nei nostri divani non riusciamo nemmeno a immaginare il livello di indigenza e bestialità in cui intere popolazioni sono ridotte a vivere. È una situazione per la quale torna utile il sapiente «prima vivere, poi filosofare» dei nostri vecchi.
Tra i più accorti fautori della cancellazione del debito - lo stesso Geldof ha palesato a volte il suo scoraggiamento nel proseguire la strada intrapresa - si sta facendo largo l’ipotesi che la via migliore per aiutare l’Africa sia un piano Marshall. Dice Bono nel libro-intervista appena pubblicato (Bono on Bono - conversazioni con Michka Assayas’, Sperling & Kupfer; euro 16): «Dobbiamo eliminare i sentimenti antiamericani e antioccidentali assicurandoci che chi ci odia sappia veramente chi siamo, lavorando con più impegno per il processo di pace in Medio Oriente, nutrendo chi muore di fame, costringendo le nostre industrie farmaceutiche a rendersi conto dell’emergenza costituita dall’Aids. Con il denaro che si è speso per la guerra in Irak si sarebbe potuto cambiare radicalmente il mondo, e chi oggi rumoreggia contro gli Stati Uniti e l’Europa li avrebbe applauditi. Queste non sono fantasie, sciocchezze da irlandese con gli occhi annebbiati, questa è realpolitik». E la realpolitik attuata da Bono, il vero leader del movimento per l’Africa, ormai è abbastanza nota: dal viaggio nel 2002 in compagnia dell’ex segretario del Tesoro americano Paul O’Neill in visita ad alcune nazioni africane agli incontri con Bush (superando lo scetticismo dei componenti della sua stessa band), fino al volontariato diretto in Etiopia .
Purtroppo, però, in alcuni nostri commenti (non certo in quello di Del Debbio) prevale una certa ipocrisia farisaica, specializzata nel pretendere dagli altri quella perfezione sulla quale - accomodati dietro le nostre tecnoscrivanie - transigiamo volentieri per noi stessi. Forse il nostro perbenismo sussulta di ripudio per la barba incolta di Jovanotti, la gaiezza di Elton John e gli occhi bistrati di Michale Stipe dei Rem, più che per i volti scavati e le pance rigonfie dei bambini denutriti del Ghana o dello Zimbabwe.
Lasciamo perdere l’eccesso di demagogia che sottolinea la carenza di musicisti africani ad Hyde Park: lo scopo di Live 8 è la sensibilizzazione dei leader politici del pianeta - alcuni dei quali si sono già pronunciati in favore della destinazione dello 0,7 per cento del Pil ai Paesi poveri - non l’autolamento. Ma, per tornare a noi, temo che quel tipo di farisaismo funzioni soprattutto quando c’è da tutelare la nostra tranquillità psicologica e ideologica.

E il nostro qualunquismo.

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