Alberoni, l’amore in società

Come mai nessuno scrive più romanzi d’amore? Come mai l’eros nella sua complessità e nella varietà delle sue manifestazioni non è più un soggetto per i nostri scrittori? A guardare le cronache letterarie, sembra ormai che interessino soltanto serial killer e ispettori di polizia, delitti efferati e indagini scalcagnate, orrore e disperazione, violenza e contro-violenza. E l’amore? Niente più che qualche «sveltina» ginnica e squallida, un sesso praticato senza convinzione, tutto di testa, senza anima né corpo. La passione sembra la grande assente dai romanzi che ci circondano.
L’eros non è mai stato florido tra le carte dei nostri letterati. Niente eros in Eco, niente nei grandissimi, in Calvino, in Sciascia. Ma c’era Moravia, c’era l’Arbasino delizioso dell’Anonimo lombardo, c’era il Soldati supremo delle Lettere da Capri. Oggi quasi più niente. Eppure è la letteratura che da sempre ha insegnato all’uomo a gettare gli occhi nell’abisso della passione amorosa. La poesia, da Saffo a Ovidio, da Petrarca a Ungaretti, il romanzo, da Goethe a Stendhal, da Flaubert a Nabokov, non ha fatto che scandagliare quell’abisso. Oggi la poesia d’amore langue, il romanzo, quando lo fa, parla di un sesso più impoverito dell’uranio con la vocina esile delle varie Melisse P. e Isabelle Santacroce. Poi apri un libro come questo di Francesco Alberoni (Sesso e amore, Rizzoli, pagg. 332, euro 16,50) e ti rendi conto che la percezione della centralità dell’eros resiste, solo che il discorso su di esso ha cambiato registro, dalla letteratura alla sociologia. Dunque non ambisce più creare forme e affrontare il mistero, ma piuttosto registrare e analizzare.
Alberoni lo fa con magistrale abilità. La teoria, con la sua superba astrattezza, si cala nella esperienza di tutti i giorni, e dalle vertigini del pensiero di Georges Bataille, che intendeva l’eros innanzi tutto come profanazione, o di De Rougemont, di Sartre, di René Girard, si passa ai racconti molto realistici e molto sboccati, di grande presa sul lettore, che l’autore mette in bocca ai vari Robert e Hasan, Evelyn e Margaret, Alex e Marlon, persone anonime o con un nome di comodo che parlano come parlerebbe un paziente sul lettino dello psicoanalista e, forse, il peccatore in confessionale. Da questi racconti che costellano il volume vengono fuori casi interessantissimi di approccio all’eros, in diverse età, e in diverse condizioni, anche se quella prevalente è la condizione di agio borghese. Tutte le sfumature dell’amore, tra sesso e eros, infatuazione e innamoramento vengono tratteggiate, con esempi concreti e linguaggi diretti, in una casistica intricata e vastissima. E l’idea, così semplice e sconvolgente, che l’eros per un essere umano sia più importante del lavoro, del successo, della politica, viene affermata senza riserve.
Il lettore di un libro così è costretto a pensare alla letteratura. Quanti romanzi in nuce, quante storie in fieri ci sono dentro. Anche sull’innamoramento, di cui Alberoni è teorico, alle volte una riga di uno scrittore finisce per dire l’essenziale. Così capita nel bel romanzo di Nico Orengo, Di viole e liquirizia, appena uscito da Einaudi (pagg. 155, euro 15,50), quando a un certo punto un personaggio afferma: «Siamo sempre colpevoli dei nostri innamoramenti», una frase che sembra mormorata da un Clint Eastwood intenerito dagli anni. È vero, siamo colpevoli dei nostri innamoramenti.

E paghiamo per essi, più che per colpe molto più gravi. Nondimeno, ci proclamiamo «continuamente innamorati», come fece Borges in un verso così perentorio e così musicale. E per capire il perché di tutto ciò, abbiamo ancora e avremo sempre bisogno di poesie e di romanzi.

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