Matteo Sacchi
da Milano
Se ne sono andati in migliaia, lasciando in tutta fretta alberghi e spiagge per tornare in patria. È iniziata così, ieri, la fuga dei cittadini israeliani dalla penisola del Sinai. Scortati dalla polizia egiziana, che ha moltiplicato i check point, si sono assiepati ai posti di confine, soprattutto al valico di Taba, per mettersi al sicuro.
Che la zona fosse a rischio attentati lo avevano già tristemente insegnato le bombe assassine dellottobre 2004 allHilton di Taba, del luglio 2005 a Sharm el-Sheik e dellaprile 2006 a Dahab. Un totale di 125 morti e centinaia di feriti in meno di due anni. Eppure negli ultimi giorni qualcosa è cambiato, facendo salire i timori del governo di Gerusalemme, non solito a diramare allarmi a vuoto tra i suoi cittadini.
Il primo segnale di preoccupazione lo aveva dato Yuval Diskin, il capo dei servizi israeliani, durante un briefing con la commissione Sicurezza della Knesset. Nel suo intervento dellaltro ieri aveva segnalato la presenza di terroristi addestrati in Iran, intenti a spostare materiali tra Gaza e il Sinai, in barba alla sorveglianza dei funzionari egiziani. In sostanza la zona desertica, oggettivamente difficile da sorvegliare, si sarebbe trasformata in una sorta di «paradiso dei trafficanti di armi e di esplosivo» e in terreno di facile azione per i fondamentalisti. Nellarco di poche ore, gli ha fatto eco il responsabile del Ufficio nazionale antiterrorismo di Israele, Danny Arditi, che intervistato alla radio ha ammonito: «Nelle ultime due settimane ci sono stati parecchi allarmi». Un annuncio che non solo ha svuotato le stazioni turistiche del Mar Rosso, ma ha convinto moltissimi altri israeliani a cancellare le prenotazioni.
Le autorità egiziane stanno ora cercando di correre ai ripari, sia per evitare attriti diplomatici sia per difendere il turismo, una delle principali fonti di introiti del Paese e, proprio per questo, bersaglio dei fondamentalisti.
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