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Benoit Lecomte, l’uomo che decise di sfidare l’oceano Pacifico

Nel 2018 il 51enne francese lambì un’impresa impensabile: fare oltre 10mila km a nuoto, dalle coste del Giappone fino a San Francisco, per una buona causa

Benoit Lecomte, l’uomo che sfidò l’oceano Pacifico
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La spiaggia è una placida distesa di arenaria, invasa da fotografi e telecamere. Quando inizia ad immergersi, quella cricca erompe in un lungo applauso. È il 5 giugno 2018 e Benoit Lecomte si trova molto distante da casa. Choshi è una cittadina di modeste dimensioni, infilata nella prefettura di Chiba. Qui il Giappone porge uno dei suoi lati più desiderabili. Chilometri di costa arpeggiata dal vento, paradiso autentico per surfisti cronici. Ora il cinquantunenne francese galleggia. Inizia a fendere le onde con le prime lente bracciate, sotto un cielo color latte cagliato. Lo attende un’impresa sinceramente impossibile se sul documento di riconoscimento, tra i segni particolari, hai scritto “essere umano”. Attraversare a nuoto l’oceano Pacifico, arrivando a San Francisco. Non esattamente un paio di vasche.

Quel precedente con l’Atlantico

Benoit però non è il genere di persona ordinaria e arrendevole. C’è di più: con gli oceani coltiva un flirt passionale. Vent’anni prima, era il 1998, si era cimentato in un’impresa concettualmente simile, ma materialmente molto più gestibile. Papà era appena morto di cancro e lui, trentenne vigoroso, aveva deciso di trasformare il dolore in messaggio. Così era partito per una sconcertante nuotata da un capo all’altro dell’Atlantico: lo aveva fatto per sé, per tentare di lenire il dolore tenendosi impegnato con un obiettivo gigantesco, ma anche per gli altri. La sua impresa, seguita in diretta dai media, era servita per generare un messaggio di sensibilizzazione nei confronti della malattia e per raccogliere fondi utili alla ricerca. Partito dalle rive del Massachusetts, era arrivato in Europa dopo 73 lunghissimi giorni. Stremato, stravaccato sulla spiaggia appena conquistata, era riuscito a reclinare la testa di lato per proferire la sua sentenza. "Bello, certo. Ma mai più". E invece.

Una buona ragione per tuffarsi di nuovo

Considerate una distanza di circa 5.500 miglia nautiche. Oltre 10mila chilometri. Da sciropparsi in acque sovente gelide, trascinati da correnti imperiose, pestati da avversità climatiche di ogni risma. Metteteci anche che nel 2018 Benoit ha spento cinquantuno candeline. Shakerando tutto viene giù un mix impossibile. Eppure, Lecomte sceglie scientemente di interrompere il digiuno a vent’anni di distanza. Troppo avvampante la spinta che lo costringe a rimetteresi a mollo: Benoit vuole documentare l’impatto delle plastiche gettate nell’oceano. Come sia in grado di avvelenare il mare, i pesci e dunque, in ultima istanza, gli esseri umani.

La folle sfida al re dei flutti

Le differenze rispetto al duello con l’Atlantico sono sostanziali. In primis la distanza, certo, ma non soltanto. Se vent’anni prima ad affiancarlo c’era soltanto una barchetta con tre amici, adesso lo segue un esercito: troupe televisive, social media manager, università, aziende private e persino la Nasa. Tutti a solcare i flutti, al suo fianco. Così può sembrare soltanto apparentemente più facile. In acqua deve pur sempre andarci lui. Il programma di viaggio è insidioso soltanto a scorrerlo: 8 ore al giorno a mulinare le braccia, per coprire trenta miglie nautiche. Ottomila calorie erose ogni volta, da mattina a sera.

Lungo il tragitto, Benoit lo rivelerà in seguito, sbatte contro cumuli di plastica praticamente ogni tre minuti. Le navi che lo circondano tendono reti generose, per raccoglierne il più possibile. "È stato incredibile – confesserà – perché se da un lato nuotavo accanto alle balene, dal’altro riflettevo su quanto stessimo inquinando il loro habitat. Mi imbattevo in oggetti di uso comune, ma anche in particelle minuscole. Pensate a quali effetti cancerogeni possano sortire, ingerite dai pesci che mangiamo". La denuncia di Lecomte va avanti per un pezzo. Fino a quando, nel mese di dicembre, lui e il suo equipaggio incontrano condizioni metereologiche troppo avverse. Benoit, che in quei mesi umidi ha attraversato indenne le situazioni più intricate, adesso tentenna.

Benoit
Benoit in un momento della traversata

La rinuncia a un passo dall’impresa

La mattina del 12 dicembre, in prossimità delle isole Hawaii, Lecomte indossa la muta per l’ultima volta. I tumultuosi capricci del clima lo costringono a rinfoderare parzialmente le proprie ambizioni. I venti si fanno bellicosi. Le correnti infuriano. Le imbarcazioni oscillano paurosamente. "In quegli istanti – dirà in seguito – ho pensato che sono prima di tutto un padre e anche che non potevo mettere a rischio la vita di chi era al mio fianco". Il suo tentativo si ferma sulle radiose spiagge dell’isola che punteggia divertita l’oceano, otto ore e poco più di volo da San Francisco.

Quel che arriva a destinazione è però il messaggio di fondo: un altro pianeta è possibile, anche se a volte per accorgersene serve un’impresa.

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