Campione del mondo a 20 anni: quando Tyson demolì Berbick

Lo chiamarono il "Judgment Day": nel 1986, a Las Vegas, la sfida per il titolo di campione del mondo dei pesi massimi durò appena un paio di round

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Molto dipendeva da quell'innamoramento avvenuto davanti alla tv. Nel salotto della sua casetta di Brooklyn il piccolo Mike fendeva l'aria serrando entrambi i pugni, poi balzava sul divano per celebrare il suo successo contro quegli avversari invisibili. Lo ispirava il tizio che vedeva danzare dall'altra parte dello schermo: Muhammad Alì. Lui lo venerava e tentava di emularne i colpi, le movenze, le schivate e i ganci. Un giorno, ripeteva tra se il piccolo Tyson, sarebbe diventato come lui.

Il processo l'avrebbe accelerato il coach Cus D'Amato, ma moltissimo sgorgava dalla quella sua ferale inclinazione naturale. A nemmeno vent'anni Mike Tyson era già un combattente formidabile. Calava sul ring e grandinava colpi che scuotevano le carni avversarie con cadenze da mitragliatrice browning. Per caricarli torceva il busto in una frazione di secondo e poi esplodeva. Non c'era nessuna possibilità di compassione per chi tentava di opporsi. Mike da Brooklyn assaliva chiunque con sguardo avido, riversandogli contro una terrificante quantità di sventole fin dai primissimi bagliori del match.

Indovinate quanti ne aveva vinti, dei suoi primi 27 incontri da professionista? Esatto, ventisette. Di cui venticinque per ko. Farsi il segno della croce non poteva bastare. Così, spinto da questo surreale ruolino di marcia, la notte del 22 novembre del 1986 saliva sul quadrante del Paradise Road di Las Vegas, per giocarsi il titolo di campione del mondo dei pesi massimi a soltanto vent'anni. Pochi di più di quando se ne stava incollato davanti alla tv, sognando di diventare qualcuno.

Nell'altro angolo siedeva, abbastanza sicuro, il campione in carica Trevor Berbick. Se il nome vi dice qualcosa, forse è perché cominciate a capire che qui le storie si annodano, la sete di vendetta trasversale monta, i destini si incidono. Perché si dà il caso, infatti, che Berbick fosse stato il pugile capace di sconfiggere Muhammad Ali nell'ultimo incontro della sua carriera. L'uomo che aveva fatto ruzzolare la leggenda. Un'onta che Tyson, adesso, era determinato a lavare via a forza di pugni.

All'epoca Berbick aveva 12 anni in più - 32 contro i 20 di Mike - era nel pieno della sua maturità agonistica, possedeva più esperienza ed era il campione della disciplina. Certo, quella valanga di brutali successi di Tyson non lo faceva dormire propriamente disteso, ma comunque sentiva di essere favorito.

Una convinzione che Mike demolì in soli due round. Appena sentito il via, Tyson gli si avventò contro sommergendolo con uno tsunami di pugni poderosi, senza sosta, destro - sinistro in loop. Nessuna chance di arginare quella vorticosa trance. Una mattanza che sarebbe finita di lì a poco, perché Berbick, che già appariva stremato e vacillante alla fine del primo round, sarebbe andato al tappeto nel secondo. A nulla servì il suo tentativo di rialzarsi durante la conta dell'arbitro, perché pochi istanti dopo Mike lo rispedì a conoscere il pavimento, stavolta definitivamente. Vittoria per ko limpida, inappellabile.

Tyson diventava così

campione del mondo dei massimi a soli vent'anni. Sul suo volto, in molti scorsero un sorriso famelico: non sbagliavano, ma quella notte era più un sorriso. Mike da Brooklyn aveva appena vendicato il suo idolo.

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