Continua a bruciare dentro, ma non è più un grido strozzato. Non è silenzio. Non è più il senso di colpa, quel qualcosa che non si può raccontare. E segna per tutta la vita. Non è il dolore muto, solo, quello della vergogna.
Il lungo inverno degli stupri quotidiani, tre, quattro, cinque al giorno, come un bollettino di guerra, come una litania, non è soltanto lo specchio di un mondo devastato, lo straniero senza terra, il pedofilo, l'insospettabile, il padre geloso e assassino. È questo, certo, ma è anche il coraggio delle vittime. La donna e il bambino hanno ritrovato la parola. Ora raccontano, ora parlano, ora puntano l'indice. Pretendono giustizia. Lo fanno tra le lacrime, ma dicono. Dicono stupro, senza vergogna, senza tabù. Senza più sentirsi colpevoli. Senza più subire. Senza rimorsi.
Queste sono tutte storie dove c'è una vittima e un colpevole. Basta. Non c'è spazio per l'ambiguità. Certi anni, quelli in cui la vittima aveva comunque qualcosa da farsi perdonare, sono tanto lontani. Cicciano è un paese quasi attaccato a Napoli. Li si conoscono tutti. C'è voluto un bel po' di coraggio per raccontare tutto a mamma e papà. Ma a otto anni è riuscito a sputare quel male e quel dolore subito in silenzio. Il pedofilo, un vicino di casa di vent'otto anni. Un ragazzo che in paese tutti consideravano sfortunato ma innocuo. Aniello arrivava in cortile tutti i giorni a cercare i bambini. I genitori lo sapevano; era l'adulto che doveva controllarli mentre loro erano via a lavorare. Con quel suo passo zoppo e strascicante, quando arrivava si indovinava da lontano. I bambini lo conoscevano da sempre, lui era il ragazzo grande, quello senza amici a cui piaceva stare con i piccoli.
«Forse si sono fidati perché non lo temevano», dicono oggi i vicini. Cosi, quando viene tradita la fiducia il dolore è ancora più grande. E più grande deve essere il coraggio per dire. Cicciano come Napoli, quando il pedofilo si nasconde in un volto conosciuto. Sevizie e botte. Resta un bastone insanguinato a testimoniare un orrore. Ma l'orco sbagliava; lui che credeva che tutto sarebbe rimasto impunito come nel 2005, quando aveva violentato una bambina di sette anni. Allora la nonna davanti ai poliziotti aveva minimizzato. «Ma quale violenza, aveva detto, è un'infezione». Oggi no. Oggi chi ha subito dice tutto e può nascondersi dietro l'abbraccio di genitori e analisti.
Ieri i racconti rimbalzavano, dalle questure ai telegiornali. Marotta di Mondolfo è un paesetto tra Pesaro e Urbino. È notte ed è un venerdì di carnevale. La discoteca «Miù j'adore» evoca trasgressioni parigine ed è più piena del solito. È qui che una ragazza di diciassette anni viene violentata, da un quasi coetaneo, solo un anno più giovane. E lei parla. Subito. Grida la rabbia, il disgusto, la ferita. Grida tutto il male che ha dentro. Racconta le facce delle bestie, l'espressione di quel piacere provato sul dolore di un altro. Poteva stare in silenzio a soffrire. Il peccato troppo sporco per poter confessare, la vergogna che schiaccia. Ma il passato è lontano. Oggi le donne non si fanno intimorire. Denunciano. E lo fanno con l’orgoglio di chi ha subito un orribile ingiustizia. Registrano facce, segni particolari e riferiscono. Come ha saputo fare la ragazzina di Roma, e quella di Bologna. Un dolore che non annebbia la mente.
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