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Anche il comunismo ateo era una religione (secolare)

In pieno '68, Will e Ariel Durant, da sinistra, osarono definire il sogno marxista come oppio dei popoli

Anche il comunismo ateo era una religione (secolare)

Le lezioni della storia è un libro di poco più di 100 pagine, pubblicato per la prima volta nel 1968, in cui Will e Ariel Durant commentano le verità senza tempo apprese da oltre cento secoli di storia e che finalmente esce in edizione italiana per i tipi della Settecolori (euro 16).

La prospettiva non è dissimile da quella inaugurata con la Storia della civiltà, imponente opera in 32 volumi, apparsi tra il 1935 e il 1975, a cui i Durant devono la loro fama di autori liberal e atei convinti, benché non fino al punto di rinunciare all'obiettività storica e, soprattutto, alla speranza.

Non a caso, alla domanda se la storia fornisca sostegni alla fede in Dio, i Durant rispondono no, se per Dio intendiamo un essere supremo intelligente e benevolo. La storia, in fondo, è uno dei campi d'azione della biologia, dove domina la selezione naturale degli individui e dei gruppi più adattati, dove la bontà non riceve favori, le disgrazie abbondano e la capacità di sopravvivere è la prova finale per tutti.

Ma che gli autori americani non siano pienamente a proprio agio con l'ateismo è dimostrato da un significativo passaggio del libro, dedicato al rapporto religione-politica: «Nella storia, prima dei nostri tempi, non c'è alcun esempio significativo di una società che sia riuscita a mantenere una vita morale senza l'aiuto della religione. La Francia, gli Stati Uniti e alcune altre nazioni hanno separato i loro governi da tutte le Chiese, ma hanno avuto l'aiuto della religione nel mantenere l'ordine sociale. Solo alcuni stati comunisti non si sono limitati a dissociarsi dalla religione ma ne hanno ripudiato l'aiuto; e forse il vistoso ma provvisorio successo di questo esperimento in Russia deve molto alla temporanea accettazione del comunismo come religione (o, direbbero gli scettici, oppio) del popolo e sostituto della Chiesa nel compito di fornire conforto e speranza».

Individuare nel comunismo una religione secolare, come fanno i Durant, per di più da sinistra e in pieno 68, è un atto di grande coraggio intellettuale. Pochi altri storici, tra cui il connazionale Carroll Quigley, hanno detto cose simili circa il carattere fideistico di un'ideologia fondata sul primato della fede in un mondo nuovo e sul sogno marxiano di redenzione universale.

Il fallimento del comunismo nello sradicare la povertà dall'esperienza umana, sperimentato direttamente dai Durant durante un viaggio in Unione Sovietica del 1932, ha generato un «risveglio religioso» diffusosi ovunque si sia fatto sentire il peso dell'oppressione imperiale e coloniale, a riprova del ruolo cruciale che nella storia riveste l'economia.

Gli autori, a tal proposito, insistono sulla «battaglia senza fine» tra libertà e uguaglianza, queste eterne «nemiche». Nelle forme di governo ultraliberiste affermano le disuguaglianze si moltiplicano, mentre nei regimi socialisti è soppressa la libertà individuale, come è successo in Russia dopo il 1917. Ma in una società libera la disuguaglianza è la norma, non l'eccezione. La stessa biologia dimostra che «la natura ama la differenza», che «due gemelli identici differiscono in cento modi e non esistono due piselli uguali».

I Durant nutrono un profondo rispetto per il costume, le istituzioni e i sistemi giuridici che «sono la saggezza accumulata da generazioni dopo secoli di esperimenti nel laboratorio della storia», e perciò invitano a superare la «tensione» tra progressismo e conservatorismo. Si dicono pronti ad ammettere che «è bene che i vecchi si oppongano ai giovani e che i giovani pungolino i vecchi», perché è da questo che nasce la «forza creatrice trascinante, lo stimolo allo sviluppo, la segreta e fondamentale unità del tutto che si muove in avanti». Ma la società moderna ha bisogno di prospettive diverse da parte sia dei progressisti che dei conservatori. Il nuovo deve integrarsi con ciò che è stabile. Se è vero che senza l'apertura all'innovazione dei progressisti una società diventerà dogmatica e tirannica, lo è altrettanto che senza l'ordine dei conservatori essa diventerà caotica e improduttiva.

Dovremmo insomma ricordare che la stragrande maggioranza delle idee nuove è moralmente peggiore di quelle tradizionali che si cerca di sostituire. Allora, oltre a lodare i conservatori per l'invidiabile ordine mentale che li contraddistingue, occorre ricordare loro che una società che non si evolve è destinata a morire.

Infine l'appello alla necessità di continuare a tramandare la civiltà, altrimenti «torneremmo a essere dei selvaggi». La storia è «una città celeste, uno spazioso paese della mente, dove mille santi, statisti, inventori, scienziati, poeti, artisti, musicisti, amanti e filosofi vivono ancora e parlano, insegnano, scolpiscono e cantano». Tutto questo va trasmesso alle future generazioni, altrimenti scomparirà.

L'onere ricade sugli educatori che non possono condannare l'umanità a un mondo che non vada oltre la mera sopravvivenza.

In un'epoca in cui la storia, quando non è ridotta a propaganda, è una litania di banali questioni sociali, l'ottimismo dei Durant è un pungolo alla serietà.

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