
"N on credo che esista un altro posto al mondo con la vita di strada di New York" scrive Andy Warhol nei suoi diari, sui quali mi sarei avventato dopo la sua morte, come milioni di altri fan. "Qui puoi vedere ogni classe, razza, sesso e genere di moda scontrarsi l'uno con l'altro. Tutti si incrociano e si mescolano ed è impossibile immaginare quale sarà la prossima combinazione".
Prima di entrare allo Studio 54 avevo naturalmente già sentito parlare di artisti che amavano la mondanità, ma avevo l'impressione che la loro fosse una mondanità successiva all'arte: come se prima se la vedessero con l'arte in privato e poi, semmai, andassero a godersi in pubblico il post-partita. Con Warhol, invece, intuivo che la cosa era diversa. Anche limitandomi al poco che ne sapevo, avevo il sospetto che lui la partita volesse giocarla proprio lì, sotto le luci stroboscopiche della pista da ballo, oppure sulle strade di New York, tra le corsie dei suoi supermercati in qualsiasi posto purché pubblico, esposto, al centro dell'attenzione. Come se l'ispirazione per le sue opere non fosse un costrutto mentale individuale, che doveva e poteva scaturire necessariamente solo dal cervello dell'artista, ma potesse essere cercata e trovata al di fuori, in ciò che si dimostra capace di conquistarsi un posto nell'immaginario collettivo che si trattasse di un'attrice famosa, di una bottiglia di Coca-Cola o di un comunissimo barattolo di zuppa.
Ecco come Warhol concepiva la Factory: un luogo generativo, in cui infatti cominciarono a convergere scrittori, poeti, pittori, registi, modelle, fotografi, stilisti, rockstar, ma anche persone qualunque, giovani randagi, qualche tossico, personalità della comunità queer. Era osservando loro che il genio di Warhol si accendeva, perché solo sui loro volti non c'era traccia di finzione e il racconto della vita poteva dipanarsi in tutta la sua potenza e innocenza.
Non è facile ripercorrere la carriera di Warhol, se non altro perché ha declinato la sua creatività in tantissime forme d'arte, incluse quelle che ancora non venivano considerate tali, per esempio la grafica pubblicitaria o la televisione. Come minimo potremmo definirlo pittore, illustratore, fotografo, sceneggiatore e produttore. In sintesi, un generatore di idee e di mode potente al punto da essere diventato l'artista più influente del secolo scorso. Come si racconta un uomo animato da una tale curiosità? Secondo me, attraverso i suoi risultati. Quello che ha realizzato. Ora vi spiego perché. Sarebbe facilissimo considerare Warhol un viveur innamorato della propria immagine, abile più che altro nella promozione di sé. Però non si può negare che qualsiasi bella idea acquisisce valore solo se chi l'ha concepita riesce a realizzarla, a calarla nella materia, condividendola e generando un discorso collettivo. L'arte non può esistere senza la creatività degli artisti, ma nemmeno senza i sensi di chi guarda, ascolta, annusa, tocca.
Le due lezioni che ho preso da Warhol. La prima: le tendenze, le mode, gli interessi della prossima epoca sono intorno a noi, per farli emergere basta osservare con occhi spalancati, accesi dall'interesse.
La seconda: se sottoponiamo a qualcuno un'idea e, al contempo, gli offriamo già una strategia completa per realizzarla, gli impediamo di contribuire; molto meglio fare domande e poi aprire la mente e mettersi in ascolto. Con ogni probabilità verranno fuori nuovi spunti.