Ecco uno che non ha tradito la sua giovinezza. Ogni tanto è utile incontrarne, perché nell’anima le cose ti si rimettono in ordine, anche se i vent’anni li hai passati da un po’. E, almeno, non ti ritrovi lì a parlare - o a leggere - di canne, di Facebook o di centri sociali (è la stessa cosa), di recenti gruppetti musicali che citano Bach ma intendono Morgan, di quanto sia «doveroso» - invero eccitante - manifestare contro qualcosa di remoto e fantasmatico («Guantanamo peggio di Auschwitz!») e di come alcuni individui che si sono fatti rinchiudere in una casa di plastica con dei microfonini al collo (e così per tutte le varie declinazioni reality mood) siano persone che «non danno calci alla fortuna», «che ci provano», «e provandoci, si divertono».
No, niente di tutto questo, e meno male. Ci sarebbe da crepar di noia e scoramento. Ogni tanto, si diceva, e per fortuna, incontri qualcuno che non ha tradito la propria giovinezza e allora tiri il fiato. Ci si accende entrambi una Gauloise con lo stesso Zippo e si parla di: 1) sesso, 2) lavoro: come trovarlo, 3) lavoro: come inventarselo quando non lo si trova, 4) lavoro: come tenerselo quando lo si è trovato, 5) famiglia: come metterla su, perché si hanno questi ormoni dentro e intorno e si crede nell’ereditarietà delle cose belle e non solo delle malattie genetiche, 5) amore, cioè qualcosa che sta all’opposto di quella lì che parla tutta «gne-gne-gne» e quando si riferisce ai suoi genitori dice sempre «mio papà e mia mamma».
E ce n’è in giro di adolescenti così, bruschi e discreti e reattivi e timidi e teneramente intransigenti, anche se è difficile che siano intercettati da inchieste giornalistiche, per le quali è meglio avere i capelli stroboscopici, essere anoressici o precari alla ricerca di un sussidio (non di un lavoro) o, nel migliore dei casi, un «cervello in fuga» verso la Ivy League. Ma dalla letteratura, questi ragazzi, invece sì che vengono intercettati e raccontati, anche se per il rotto della cuffia e in strani innocenti libri che poi rimangono lì a indicare la via a coloro che si sono disintossicati dalle canne e da Foster Wallace: la letteratura ha fiuto per la vera vita, quella concreta, reale, non mediatica e non psicotropa (è la stessa cosa). La letteratura è sempre adolescente, come Tolstoj quando se ne va di casa a ottant’anni per una questione di principio; come Kleist che attraversa la battaglia di Aspern col rischio di essere fucilato come spia non avendo in tasca, per legittimarsi, altro che un paio di poesie patriottiche; o come tutta l’esistenza di John Fante, spesa tra «Bunker Hill», California, e una Torricella Peligna dell’animo, Abruzzo, e quattro figli tirati su senza menarsela troppo, scrivendo racconti di sconcertante, eterna freschezza (e credetemi, è di nuovo la stessa cosa: dietro romanzi eternamente freschi, c’è sempre un padre). Ultima intercettazione rilevata in questo senso, sebbene su frequenze minori delle precedenti: Mia sorella è una foca monaca di Christian Frascella (Fazi, pagg. 304, euro 17,50).
È la storia di un ragazzo che fa a botte nel cortile della scuola per una tipa appunto «gne-gne-gne» che manco lo fila. E fa a botte come il pugile Oscar Moya - «in una gara di eleganza, avrei senz’altro vinto ai punti» - ma purtroppo l’avversario è un fan di Schwarzenegger, vale a dire schiaffi, spintoni irregolari, testate e calci, e allora vedi come va a finire: le prende, anche se un giorno più tardi «Schwarzy» è all’ospedale, svenuto due ore dopo il match; e di conseguenza la vergogna del novello Moya è anche sottile orgoglio, ma la sospensione da parte del preside è sicura. «Perché non ti trovi un lavoro visto che coi libri non combini niente?» gli dice il padre. E lui, mica un intellettuale, lo trova, «proprio mentre i miei coetanei scolavano lattine di birra»: e anche se il romanzo è ambientato tra la caduta del Muro di Berlino e il periodo successivo, la precisazione vale ancora: è attuale, come lo è sempre la normalità di chi deve mantenersi e sa che nessun pasto è gratis, nemmeno quelli scroccati. A un certo punto, un tale Ritucci Valerio, anni ventinove e una vita passata sulla panchina del parco, offre al protagonista un po’ giù di corda una canna: «No, non mi interessa». «Come fai a saperlo?». La risposta è di quelle rare, a tutte le età: «Mi basta darti un’occhiata».
Insomma, ogni tanto anche tra i libri si trova uno per cui essere adolescente non significa trasgredire. Uno che, nonostante abbia un padre autoritario e un po’ cazzone (sebbene «tonico e con cervello») e una sorella «foca monaca» che mordicchia il pane «come un topo campagnolo» e frequenta un po’ troppo la chiesa (fuori dalla quale, però, l’aspetta di nascosto quello che diventerà il futuro fidanzato), e nonostante viva insieme a loro (la madre è fuggita con un benzinaio «per sentirsi giovane») in una casetta su due piani appartenuta ai nonni, non si è mica rassegnato a fare da pendolo esistenziale e letterario tra Kurt Cobain e il giovane Holden. Uno che se risponde insofferente a una commessa del supermercato imitando Harrison Ford, da questa riceve una sberla che lo rimette subito a posto, e manco a dirlo se ne innamora; uno che se viene lasciato a casa dal padrone spazzato via dai colossi industriali, ne riconosce però il comportamento onesto; ed è proprio questa sua onestà di fondo a spingerlo di nuovo verso il lavoro anziché la deriva sociale, e infatti quando lo trova ne gioisce: «Non ricordavo cosa fosse la Trak S.p.A., se soffiassero il vetro o sventrassero vacche, ma l’idea di scrollarmi via tutta quell’indolenza con un lavoro vero mi elettrizzò». Tale gioia sebbene, già all’arrivo al parcheggio della fabbrica, «non ci voleva un genio per capire dove si mettessero i manager e dove i morti di fame».
Tutto ciò può sembrare ingenuo, ma «la vita è reazione», come si dice in medicina, e il protagonista di Mia sorella è una foca monaca reagisce ad ogni mazzata, senza distribuire colpe, in solitaria, innamorandosi oppure facendo tesoro delle amarezze. Alla fine - soprattutto in tempi di crisi come oggi - la diversità intrinseca di questo romanzo sta proprio nel concepire la vita senza autoinganni né false speranze, come uno spazio dove accade di fare un lavoro che non si ama particolarmente, di dover mantenere un certo rispetto di sé che a volte può apparire troppo comico e macho per essere sorretto a lungo senza ridere, ma che è necessario per non finire realmente nel ridicolo, e di dover fare una «pace separata» con le ingiustizie del mondo per poter innamorarsi concretamente di qualcuno.
Ci sono già troppi libri in giro che sembrano narrati da piccoli Raskolnikov esentati nelle loro azioni dal rapporto causa-effetto, e allora ecco che la «piccola responsabilità» del fratello della foca monaca appare, pur nei suoi debiti a Fante, fresca, promettente. A questo racconto - e in un momento che vede l’arrivo in libreria di un inconsueto numero di saggi sul suicidio adolescenziale (tra tutti, l’intenso Uccidersi di Pietropolli Charmet per Raffaello Cortina) - possiamo mettere a fianco anche Il giovane Jim di Tony Earley (in uscita per Fanucci) e La rabbia giovane di Ross Raisin (in uscita per Bompiani).
Altri due romanzi volutamente lontani dalle alienazioni virtuali a cui oggi è condannata la giovinezza, tanto da restituirla a quello che essa realmente è, pure fuori dalla letteratura: una doccia fredda piena di desiderio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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