Armi e rapine, la saga del «conte mitra» finisce in condanna

Trafugò opere d’arte nell’Hotel di Villa d’Este e ripulì la residenza della promessa sposa

Armi e rapine, la saga del «conte mitra» finisce in condanna

Un processo così si vede raramente. Innanzitutto interminabile: è cominciato nel 1999 e si è concluso solo qualche giorno fa, l’8 luglio, con ben sette condanne (nonostante la metà dei 58 capi d’imputazione fossero ormai finiti in prescrizione) per associazione a delinquere finalizzata alla ricettazione e al riciclaggio di gioielli, opere d’arte e antiquariato trafugate da ville di privati e gallerie. E poi pieno di colpi di scena, di prove e controprove fasulle per contrastare una verità che ha stentato a venir fuori, nonostante la tenacia di un pubblico ministero di razza, Rossana Penna e dell’agguerritissimo difensore della parte offesa Giancarlo Ferrara. Un procedimento costellato di testimonianze e documentazioni fittizie e di ritrattazioni plateali, di assenze strategiche, popolato da personaggi che sembrano usciti dalla fervida fantasia di uno scrittore. Come una madre disposta a tutto, anche a farsi condannare insieme ai figli balordi rinnegando l’unico perbene. Un’azione giudiziaria dove c’è un «cattivo» vero - il conte Emanuele Savoldi Bellavitis, 47 anni, bugiardo irriducibile, pregiudicato e meglio noto come «conte mitra» per la sua predilezione per le armi da guerra e relative munizioni (ma anche per i gioielli e le opere d’arte come testimoniano i fatti e le deliranti pagine del suo diario) e «buoni» altrettanto nobili (soprattutto di cuore), come la contessa Marie Antoinette Castellano Labadini (morta mesi fa) e i figli Alessandro e Carolina.
Oltre vent’anni fa, infatti, la giovanissima nobildonna e il conte - Carolina ed Emanuele - erano fidanzati in casa, con grande gioia delle rispettive madri. All’improvviso, però, la contessina - accortasi di avere a che fare con un uomo dall’esistenza poco specchiata - ruppe il legame. Non poteva certo immaginare che il conte Emanuele Savoldi Bellavitis - come lei orfano di padre e residente in un palazzo di via Ravizza con la madre, un fratello, la sorella e il nonno - rifiutando l’onta dell’abbandono e della possibilità di assurgere, grazie a quel matrimonio prestigioso, ai massimi ranghi della nobiltà e della ricchezza, potesse approfittare senza scrupoli dell’affetto che lo legava alla madre della sua ormai ex promessa sposa, la contessa Marie Antoinette, dando vita, con la complicità di quasi tutta la famiglia, a un’associazione a delinquere. La banda guidata dal «conte mitra» fu implicata in colpi celebri in gallerie e magioni di prestigio, come il furto delle opere d’arte trafugate nel maestoso hotel «Villa D’Este» di Cernobbio (Como) nel 1988, ma anche, l’anno dopo, nel maxi-furto al caveau della villa di Stresa di proprietà della ex futura suocera: da lì sparirono gioielli, opere e oggetti d’arte, ma anche pellicce d’immenso valore. I Labadini e il loro legale in questi anni hanno faticato sette camicie per dimostrare l’ovvio e cioè che erano tutti beni di loro proprietà: Bellavitis, infatti, li aveva modificati e ne rivendicava fortemente, con la madre e la sorella, il possesso.
Ora che i tre sono stati condannati rispettivamente a 8 anni e 3 mesi, 3 anni e 2 anni e 8 mesi nonchè alla restituzione di tutti i beni, Carolina e Alessandro Labadini rimpiangono solo che la prematura morte della madre l’abbia privata dell’agognato trionfo della giustizia.

Mentre il fratello «buono» e scandalizzato, Claudio Savoldi Bellavitis - compositore jazzista di fama negli Usa, noto con il nome di Klaus, commenta: «Per quello che mio fratello mi ha fatto, privandomi della famiglia che si è sempre schierata dalla sua parte, nessun tribunale potrà mai farmi giustizia».

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