Gli arrestati non rispondono al giudice: "Ci dichiariamo prigionieri politici"

Davanzo al momento dell'arresto e Latino davanti al gip usano la formula da "vecchie Br". Ieri i primi interrogatori mentre proseguono le perquisizioni alla ricerca dell’arsenale che non si trova. Latino era già stato indagato per l’omicidio Biagi

Gli arrestati non rispondono al giudice: 
"Ci dichiariamo prigionieri politici"

Milano - Prima, al momento dell’arresto, Alfredo Davanzo. Poi, davanti al gip Guido Salvini, Claudio Latino. Si dichiarano prigionieri politici e rispolverano un rituale che ormai pensavamo consegnato ai documentari sulla «Notte della Repubblica». Non è così: Davanzo, forse il soggetto politicamente più attrezzato del gruppo, riprende il linguaggio e gli schemi delle Brigate rosse, troncone Partito guerriglia, in cui militava già negli anni Ottanta. Latino, già perquisito e indagato nel 2002 dopo il delitto Biagi, era il capo della cellula milanese dell’organizzazione sgominata con i quindici arresti di lunedì. Il suo interrogatorio di garanzia davanti a Salvini dura un attimo, giusto il tempo di utilizzare quella formula che sembra montata sulla macchina del tempo. Tocca poi a Davide Bortolato e Massimiliano Gaeta: i due sono ancor più stringati e si avvalgono della facoltà di non rispondere. Pochi minuti e gli incontri col giudice si chiudono.

Oggi si andrà avanti con Vincenzo Sisi, Bruno Ghirardi, Davide Rotondi e Valentino Rossin. Soltanto venerdì arriverà il turno di Alfredo Davanzo, l’ideologo di seconda posizione. Certo, l’indagine miscela, anche da un punto di vista anagrafico e generazionale, dati sorprendenti, quasi agli antipodi: fra gli arrestati ci sono ragazzi nati alla metà degli anni Ottanta ma c’è anche Bruno Ghirardi che nello stesso periodo era componente dei Colp, uno spezzone di Prima linea, e per questo fu arrestato e interrogato proprio da Salvini, alla presenza dell’avvocato Giuseppe Pelazza, lo stesso legale che lo assisterà oggi.

Difficile bilanciare, in questa prima fase, le suggestioni e i fatti. Al Corriere della Sera, verso le 11.30 del mattino, arriva la telefonata di un presunto brigatista: «Nulla resterà impunito e la bandiera che è caduta l’abbiamo ripresa in mano. Colonna Walter Alasia». Ovvero, il segmento milanese delle Br, così chiamato in ricordo del giovane terrorista morto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine a Sesto San Giovanni nel dicembre 1976.

Gli investigatori allineano i tasselli, completano le perquisizioni e scavano ancora, fra Lombardia e Veneto, alla ricerca delle armi. È questo il lato che più zoppica in questa storia. Due anni di intercettazioni e pedinamenti, un lavoro meticoloso e accuratissimo, addirittura la Digos aveva recuperato i proiettili lasciati sul campo dai neobrigatisti al termine di un’esercitazione. Dunque, al momento di chiudere il cerchio la polizia è andata quasi a colpo sicuro, convinta di dissotterrare fucili, mitragliatori e pistole. Nulla, non è saltato fuori niente e ci si chiede come sia stato possibile. Forse qualcuno ha spostato le munizioni all’ultimo minuto? Per la verità quasi a sorpresa nell’orto di Vincenzo Sisi, vicino Torino, è stato ritrovato un mitragliatore M 70 jugoslavo, e poi due caricatori e centocinquanta proiettili. Ma i conti non tornano. Ma Alessandro Clementi e Giuseppe Pelazza, i difensori, lo fanno notare: «Ci viene contestato il reato di partecipazione a banda armata ma, al momento, non abbiamo ricevuto alcun verbale di sequestro disposto dall’autorità giudiziaria che dimostri il ritrovamento di queste armi. Si può parlare di banda armata quando c’è una dotazione permanente di armi e questo non sembra essere il nostro caso».

Si vedrà.

Intanto proseguono anche gli accertamenti su Marcello Ghiringhelli, l’irriducibile due volte all’ergastolo che nel 1999 era fuggito dal carcere di Novara. Riacciuffato, aveva incredibilmente ottenuto il permesso di lavorare all’esterno e aveva riannodato i rapporti con i vecchi amici. In Italia e all’estero.

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