José María Bea è un pittore autodidatta originario di Motril, nel sud dell’Andalusia. Il suo percorso artistico è il risultato di anni di dedizione, ricerca e sperimentazione. Fondatore della “New International Art Gallery ”, Bea ha saputo trasformare la propria città natale in un polo di scambio creativo, esponendo artisti di fama internazionale e diventando egli stesso un riferimento nel mondo dell’arte astratta espressionista. Le sue opere, esposte in Spagna, Italia (dove ha ricevuto ben due menzioni a Milano e a Roma), Stati Uniti, Messico e Dubai, raccontano con intensità temi universali come l’amore, il dolore, la fragilità umana e la rinascita interiore. In questa intervista esclusiva per ilGiornale.it, Bea si racconta con sincerità, toccando i momenti più intimi del suo
percorso.
Maestro, come definirebbe il suo stile?
«Il mio stile è espressionista e astratto. Non mi interessa rappresentare solo ciò che si vede, ma ciò che si sente: emozioni, stati d’animo, momenti vissuti. Il mio intento è tradurre in colore e forma ciò che spesso non riusciamo a esprimere con le parole».
Luce e colori sembrano avere un ruolo centrale nel suo lavoro. Che significato assumono per lei?
«La luce è fondamentale, come lo sono i colori. L’oro richiama le mie radici artistiche: il barocco, il rinascimento, ma reinterpretati in chiave contemporanea. Il blu rappresenta il mare, elemento a me caro. Il nero evoca dolore e passione, il rosa la fragilità emotiva, mentre il bianco è l’anima, la luce interiore. Ogni colore è parte di me».
C’è un’opera che la rappresenta in modo particolare?
«Sicuramente “Resilienza”. Racconta la mia lotta per affermarmi nell’arte senza aiuti né padrini. È stata dipinta in un periodo difficile ed è diventata un simbolo. Quest’opera ha ricevuto una menzione d’onore a Roma ed è stata esposta a New York e a Dubai, dove ha riscosso grande apprezzamento nella comunità che si occupa di salute mentale.»
In effetti, lei ha trattato temi molto delicati come la depressione, la demenza senile e la
schizofrenia.
«Sì, perché l’arte deve anche far luce sull’oscurità. Credo che un artista debba saper raccontare il dolore così come la gioia. Sono convinto che la società tenda a nascondere ciò che è fuori norma. Io, invece, voglio che emerga».
Ha mai rappresentato l’amore nelle sue opere?
«Sì, con una tela che racconta la chimica tra due persone. L’oro scuro simboleggia le difficoltà della vita a due, ma al centro resta quella scintilla che tiene insieme due anime. L’amore, quando è vero, può superare ogni ostacolo».
Ha affrontato anche il tema del peccato?
«Ho realizzato una serie intitolata “I peccati dell’amore”: cinque tele dedicate a menzogna, tradimento, delusione… sono emozioni che possono distruggere anche il sentimento più puro. Quando viene a mancare la fiducia, tutto crolla».
Cosa significa, per lei, essere artista?
«Significa scavare dentro sé stessi, trasformare la sofferenza in bellezza e dare voce a ciò che spesso rimane nascosto. Non basta saper dipingere: bisogna sentire profondamente ciò che si fa. L’artista è colui che riesce a smuovere qualcosa nell’animo di chi guarda».
Lei dipinge anche in 3D… ce ne parla?
«Sì. Ho reinterpretato in chiave tridimensionale l’infanta Margherita d’Austria di Velázquez. Ho mantenuto i toni del maestro spagnolo, ma li ho trasportati nel linguaggio dell’astrazione. L’opera, esposta a New York, ha riscosso l’interesse del mondo del collezionismo ed è stata riconosciuta ufficialmente dalla Asociación de Escultores y Pintores de España.»
Motril non è una città legata tradizionalmente all’arte contemporanea. Perché ha scelto di
restare lì?
«Motril è casa mia. Potevo andare altrove, ma ho voluto creare qualcosa qui. La mia galleria ospita artisti da tutta Europa e dall’America Latina. È un luogo vivo, dove si organizzano mostre, eventi, workshop. L’arte può rigenerare un territorio».
Che rapporto ha con la figura di Marilyn Monroe, molto presente nel suo studio?
«In lei vedo la bellezza fragile. Era un’icona, ma portava dentro un grande dolore. Mi identifico con quella dualità: l’apparenza forte, ma un mondo interiore vulnerabile. È un simbolo di quanto la società spesso non sappia guardare oltre l’immagine».
Come nasce una sua opera? Ha un rituale creativo?
«Sì. Dipingo da solo, con musica. Tolgo scarpe e vestiti, per sentirmi libero. Dipingo sul pavimento, a piedi nudi, per entrare in connessione con l’opera. Solo così riesco a esprimere ciò che ho dentro».
Serve una formazione accademica per essere artista?
«Non necessariamente. Serve passione, dedizione, e una ricerca continua. Io mi sono formato da solo, studiando i maestri nei musei, osservando, sperimentando. Ho collaborato con grandi artisti, e da ognuno ho imparato qualcosa. La mia è una scuola di vita, più che accademica».
Ha mai avuto dubbi sul suo percorso?
«Mai. Sapevo di avere un dono. Ma ho anche compreso che non bastava: ho dovuto lavorare, migliorarmi, espormi. Ho sempre creduto che la mia arte meritasse di essere vista, condivisa, compresa».
E quando un’opera si può considerare conclusa?
«Quando riesce a trasmettere ciò che avevo dentro. Se osservo una tela e percepisco chiaramente il messaggio, l’emozione, allora so che è finita. L’opera parla da sola».