Quando Federico Zeri riportò alla luce la figura di Pietro Cavallini (circa 1240-1330), che Giorgio Vasari aveva relegato all’oblio, emerse con forza un’altra radice della pittura moderna: quella romana, a lungo rimossa dalla narrazione ufficiale. Zeri restituì visibilità a un autore che i contemporanei stimavano quanto Giotto, ma che la storiografia post-rinascimentale aveva progressivamente marginalizzato. Questa rimozione non fu accidentale. Vasari, da toscano, costruì una genealogia della modernità figurativa centrata su Firenze, eleggendola a primo laboratorio della pittura moderna. Eppure la storia dell’arte è più complessa dei miti fondativi che la sostengono.
Assisi non è soltanto un luogo geografico, ma un crocevia simbolico, spirituale e artistico. È lì che convergono linguaggi figurativi differenti, ed è lì che si misura - forse per la prima volta - la possibilità di una pittura capace di raccontare il reale.
Nella Basilica Superiore di San Francesco si compie una metamorfosi decisiva: la pittura non è più solo apparizione ieratica, ma diventa narrazione, incarnazione, psicologia. Le immagini non si limitano a illustrare un contenuto sacro. Lo abitano. È qui che prende forma quella svolta tra Duecento e Trecento che la tradizione, a partire da Vasari, ha sintetizzato nel nome di Giotto. Ma ad Assisi - anche nella Basilica Inferiore, scrigno di visioni stratificate e spesso contrastanti si percepisce un’altra tensione, una pluralità di mani e di sguardi che rende più complesso il racconto delle origini. In questo spazio stratificato e irrisolto nasce la cosiddetta questione giottesca - non solo un problema di attribuzione, ma una domanda più radicale: da quale linea, da quale luogo, da quale sguardo ha preso corpo la modernità della pittura italiana?
Pietro Cavallini, attivo a Roma nella seconda metà del XIII secolo, è una risposta concreta a quella domanda. I mosaici absidali di Santa Maria in Trastevere (1291) e gli affreschi del Giudizio Universale in Santa Cecilia in Trastevere (1293) rappresentano due vertici assoluti della cultura figurativa duecentesca. In queste opere la memoria bizantina si fonde con la corporeità del mondo classico: figure solenni, ma dotate di volume, peso, presenza. I panneggi si modellano nella luce, i volti si animano, le mani sembrano compiere gesti reali.
Non più icone astoriche, ma corpi credibili, inseriti in uno spazio che acquista profondità.
Nel catino absidale della più antica basilica mariana di Roma, Cavallini realizza un mosaico che è teologia visibile. Al centro, la Madonna in trono col Bambino è affiancata da Cristo adulto che la incorona: un gesto insieme regale e affettuoso, che definisce la regalità di Maria come partecipazione all’economia salvifica. Ai lati, una schiera di santi romani afferma la romanità ecclesiale dell’immagine. La vera novità, però, è formale: i volti sono plastici, i panneggi profondi, il chiaroscuro costruito con una logica pittorica e scultorea insieme. Sotto il catino, sei scene della vita della Vergine introducono la narrazione: la pittura si fa storia, tempo, affetto. Santa Maria in Trastevere diventa il luogo in cui il mosaico, linguaggio dell’eterno, si apre al tempo dell’uomo.
Un’altra testimonianza capitale è il Volto di Cristo, conservato presso il Campo Santo Teutonico in Vaticano e attribuito da Zeri nel 1957.
Opera monumentale e solenne, probabilmente al centro di un’unica grande tavola oggi frammentata, mostra un volto sereno, modellato con forza plastica. Due pannelli recentemente riemersi - la Vergine Maria e San Giovanni Evangelista - sembrano appartenere alla stessa tavola, per stile, composizione e trattamento del fondo. Il confronto con il Giudizio Universale di Santa Cecilia rafforza la coerenza dell’insieme: in entrambi i casi Cavallini costruisce figure monumentali, intensamente modellate, in cui la solennità del gesto si accompagna a una viva emotività. Le lacrime, le tensioni, l’architettura silenziosa dello spazio: tutto partecipa a un linguaggio nuovo, che fonde memoria e invenzione.
Pochi anni dopo, Giotto traccia un’altra via alla modernità: più narrativa, più drammatica, più psicologica. I suoi corpi hanno peso e gesto, ma anche emozione interna.
Rispetto a Cavallini, Giotto scava più a fondo nella dimensione affettiva, ma su una base che Cavallini ha reso possibile: la restituzione del corpo come presenza incarnata. Due vie parallele, non gerarchiche: quella romana, fondata sulla memoria classica, e quella toscana, incentrata sulla sequenza narrativa. In questa luce, la cosiddetta questione giottesca diventa il sintomo di una storia da riscrivere.
Ogni volta che mi trovo di fronte alla bellezza dei mosaici di Santa Maria in Trastevere, mi rendo conto di quanto Cavallini sia un pittore non influenzato dalla rivoluzione giottesca.