
Quando il paesaggio diventa un paesaggio interiore, una presenza sacra, in cui si proietta per intero l'animo umano? Quando l'Infinito di Leopardi diventa pittura di paesaggio? Con William Turner (1775-1851). Il Ponte del diavolo al San Gottardo venne dipinto da Turner nel 1803 circa, al ritorno di un suo viaggio in Svizzera, e vi risuonano le tematiche affrontate da René de Chateaubriand negli stessi anni, cioè il rapporto tra il pittoresco e il sublime, che caratterizza la visione della natura propria del Romanticismo. Il pittoresco è il luogo ai piedi della montagna, la felicità e le preoccupazioni quotidiane di quelli che vi abitano, il piacere di una condizione di vita legata al mondo pastorale. L'altra visione è quella del sublime naturale. Nessun pittore è stato capace di interpretarlo come Turner, e lo si vede in questo dipinto, dove sentiamo che la natura è così potente che l'uomo si riduce a una condizione di grande fragilità. Ma, nella coscienza di questa sproporzione, nella consapevolezza della vastità immensa in cui l'uomo si «spaura», come scrive Leopardi nell'Infinito, l'animo umano allarga a dismisura i suoi limiti. Il sublime è proprio questo rovesciamento del limite nel pensiero dell'illimitato, tra la finitezza della condizione umana e l'infinito che il suo pensiero può raggiungere.
Questo prodigioso emergere del pensiero dell'Infinito lo aveva già tracciato Pascal nei Pensieri: «Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci
ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?».
Turner magistralmente dipinge questo ne Il Ponte del diavolo al San Gottardo: vediamo minuscoli uomini, lungo un sentiero che si fa ponte e torna sentiero. La strada e il ponte sono in muratura, ed è importante che lo siano, perché qui il disegno si fa più preciso: vediamo i mattoni, l'accostarsi della linea curva con la linea retta, mentre il paesaggio ha contorni e forme sempre più sfumati. La via è costruita dagli uomini, incuneata in una vastità naturale che incombe: precipita la roccia, l'acqua è furente e per nulla amica, la nuvola insidiosa e minacciosa. La natura tutta sembra essere evocata e convocata per far sentire lo stato di minorità dell'uomo davanti al creato. La natura è la potenza di Dio sopra di noi. In Masaccio sentiamo la potenza di Dio nella vergogna e nella disperazione di Adamo ed Eva che, nudi, vengono cacciati dall'Eden. Qui la potenza di Dio che ci minaccia è la stessa natura che ha smesso di essere idillio, conforto, ed è pura, indeterminata potenza, come l'infinito di Anassimandro che rende giustizia alla colpa della nostra esistenza. Natura naturans.
Prendiamo un altro dipinto, uno dei più celebri di Turner, Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, del 1812. Non c'è è questa la grandezza di Turner altro che la potenza della natura. L'esercito non conta, eppure è un esercito vincitore, eroico, che farà la storia. Ma qualunque impresa esso potrà compiere, sarà travolto, passerà come efelidi temporanee sulla pelle del tempo. La natura diventa una tempesta di montagne, nuvole e luce, una condizione nella quale non sembra esserci spazio per l'uomo se non ritagliato, rubato, provvisorio. Quella luce bianca è la potenza di Dio che si sprigiona. Ma non è il Dio cristiano, benevolo o giudicante, razionale o vendicativo, è l'indeterminato che ci spaventa con la sua incombenza. L'uomo, anche nella sua espressione di potenza, è inadeguato e non può che essere travolto, cancellato. Un esercito che si incammina verso il nulla perché nessun esercito potrà mai essere realmente vincitore al cospetto del ciclo della natura, della vita e della morte.
Il sublime naturale ha un altro noto interprete, il grande pittore tedesco, riscoperto nel Novecento, Caspar David Friedrich. Anche di lui possiamo osservare un dipinto di montagne, La croce in montagna, una delle prime opere importanti del pittore, risalente al 1807. Qui una montagna sale verso la luce, che è certamente luce divina. La roccia ascende per farsi lucore e, sulla sommità, è posto il Golgota, il luogo del Crocifisso. Dalla Croce emanano raggi. C'è una osmosi tra natura e divino, come se il loro respiro fosse sincronizzato. Il Romanticismo, col suo senso del Sublime, si fa, qui, Simbolismo. Rispetto a Turner, tuttavia, sentiamo che c'è qualcosa di troppo. Non ci sarebbe bisogno del Crocifisso per indicare la divinità della natura e della montagna. La montagna che sale è già calvario. La conquista della vetta è già redenzione. La raffigurazione della Croce è un dato esterno, ridonda la purezza delle rocce, degli alberi che vi si ancorano, e della luce. Ma Friedrich si riscatta nel Viandante su un mare di nebbia del 1818. L'uomo contempla la natura e noi siamo spettatori che contempliamo l'uomo che contempla, nella stessa posa. Non c'è dominio sulla natura, ma abbandono. Col viandante, anche noi siamo arrivati fin lì, abbiamo scalato il monte, abbiamo raggiunto la vetta, avvicinato il cielo, e siamo diventati una cosa sola con la natura.
Nella poetica matura di Friedrich c'è la consapevolezza che non solo nella montagna, nel mare, nella luce, nella nebbia c'è presenza di Dio.
Dio sta nell'uomo che contempla gli elementi della natura. Non c'è bisogno di mostrare il volto dell'uomo, tanto meno di dipingere simboli sacri, come il Crocifisso. Dio sta nel pensiero dell'uomo, che sa la sua precarietà, la sua finitezza e, per ciò, si fa divino.