Artista, maniaco o predicatore? I dilemmi di Jerry Lee Lewis

I Pink Floyd sono uno dei gruppi rock più famosi del mondo. L’immediata fortuna della band inglese, esplosa nel 1967, è legata al genio visionario del giovane chitarrista di Cambridge, Syd Barrett. Autore di quasi tutti i brani, testi e musica, carismatico sul palco, divertente di persona, Syd è una perfetta macchina sforna-singoli bizzarri e di impatto. A partire da Arnold Layne, storia di uno scapestrato che ruba biancheria femminile alla vicine, un mezzo scandalo per l’epoca. I Pink Floyd diventano in poco tempo il principale gruppo della psichedelica Londra fine anni Sessanta. Un occhio al pop beatlesiano, uno all’improvvisazione. Il tutto calato in melodie sbilenche che talvolta ricordano, anche nelle parole, le filastrocche infantili. Il primo long playing, The piper at the gates of dawn, è accolto come un capolavoro.
Il periodo d’oro dura pochi mesi. Syd si perde nella schizofrenia, l’abuso di acidi non fa che accelerarne i sintomi. Inizia un calvario allucinante, nel vero senso della parola. Barrett perde il tocco magico, sale sul palco ma suona la stessa nota per tutto il concerto. Il resto del gruppo (Roger Waters, Rick Wright, Nick Mason) recluta un altro chitarrista per affiancare la stella in crisi. La scelta cade sull’amico d’infanzia David Gilmour. Syd è sempre più un corpo estraneo, c’è un nuovo disco da registrare, le esibizioni si moltiplicano. Non è in grado di far fronte a tutti gli impegni. Un giorno i Pink Floyd, in macchina, decidono di non mettere la freccia per andare a recuperare Syd prima di uno show. Tirano dritti. Syd è fuori. Il nuovo leader è il bassista Roger Waters. Barrett sprofonda, incide due album da solista, poi sparisce dal mondo. Vivrà fino al 2006 nel sottoscala della casa materna, dipingendo e collezionando chitarre.
Questa, a grandi linee, è la storia così com’è tramandata da generazioni di fan. Michele Mari ora la racconta in Rosso Floyd (Einaudi, pagg. 280, euro 20), un originale romanzo in forma di istruttoria. Parlano protagonisti, amici, parenti e testimoni: dai Pink Floyd (meno Syd), Kubrick, Bowie, Antonioni fino ai famigliari di Barrett. Un’istruttoria? Sì, perché molti sono i misteri e i segreti della storia. Chi o cosa fu a spingere Syd nel baratro? Una dose esagerata di Lsd? E, nel caso, chi gliela diede? O fu piuttosto il peso di dover essere all’altezza delle aspettative (di Waters, dei discografici, dei fan)? E se invece fosse stato semplicemente il destino crudele?
Mari si tuffa anche nei Pink Floyd post Barrett alla ricerca del «non detto» che rende indecifrabile la realtà. Molte (troppe) canzoni sono dedicate a Syd, da Shine on you crazy diamond a Wish you were here, dall’intero Dark side of the moon ad ampie parti dell’ambiguo The wall. Come mai? Potrebbe essere l’atroce senso di colpa per aver scelto il successo, abbandonando l’amico. Oppure c’è qualcosa di inafferrabile che rende Waters e Gilmour due strumenti nelle mani del pazzo, quel Syd che da un certo momento in poi si è volontariamente volatilizzato.
Ci sono poi fatti da brivido. Come Syd che riappare, all’inizio non riconosciuto, durante le incisioni di Wish you were here, o la fotografia dei Pink Floyd impegnati in una partita di cricket per rilassarsi prima di un festival: in mezzo agli avversari, c’è Syd, ma nessuno si era accorto della sua presenza. Barrett è il fantasma con cui gli altri Floyd devono fare i conti dal punto vista artistico e umano. Gli anni passano, e mentre Waters e Gilmour danno vita a una faida interna con squallidi cascami legali, Syd rimane nell’immaginario collettivo come l’eterno bambino. La musica dei Pink Floyd diventa pachidermica, ridondante e autoreferenziale. Che differenza con la fantastica leggerezza dei brani di Syd affidati a The piper at the gates of dawn! La pazzia, alla fine, sembra quasi il salatissimo prezzo pagato da Syd per non tradire se stesso. Al confronto, la vecchiaia dei Pink Floyd appare sfigurata dai compromessi, inclusi quelli con la macchina commerciale di cui sono insieme protagonisti e apparenti contestatori (in brani come Welcome to the machine o in opere come The wall). Ecco perché lui, a differenza di loro, rimarrà per sempre un eroe nonostante la breve stagione creativa che lo ebbe per protagonista.
Scrivere di musica rock è difficile, soprattutto in Italia. Non solo perché siamo nella periferia della periferia, ma anche perché è facile cadere nelle trappole dell’agiografia, del maledettismo, della sociologia un tanto al chilo. Rosso Floyd, pur poggiando su una solida documentazione, dribbla tutti questi problemi scegliendo la strada del romanzo e reinventando vicende già spolpate da decine di volumi. Centro pieno: Mari firma il miglior libro sulla musica popolare mai scritto da queste parti e nella biblioteca ideale va a collocarsi accanto ai capolavori del genere, dalla fiction di Geoff Dyer (Natura morta con custodia di sax) alla non fiction (la biografia di Elvis di Peter Guralnick o l’autobiografia Head On/Repossessed di Julian Cope).
Infine. Se non avete la minima idea di chi sia Syd Barrett, né intendete informarvi, la bellezza di Rosso Floyd non cambia di una virgola.

Come scrive Mari, «non essere mai in sintonia con gli altri fa di te un naufrago su uno scoglio, o un astronauta perso nello spazio». Questa è la storia di una eclissi mai compresa fino in fondo ma soprattutto di una solitudine dolorosa e improvvisa. Poco conta se l’uomo che si scopre lontano da tutti è Syd Barrett o un tizio qualunque.

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