La questione del lavoro nella filiera della macellazione halal in Italia, così come in Europa, porta alla luce una significativa tensione tra il quadro normativo laico della Repubblica e i requisiti imposti dagli enti di certificazione religiosi. In sostanza, un cittadino italiano non musulmano, o la cui condotta di vita non sia in linea con i precetti della Sharia, si trova di fatto escluso dalla possibilità di operare in questo specifico settore, pur possedendo le qualifiche tecniche richieste. Un macellaio che opera nella filiera halal dev’essere musulmano praticante e, sebbene non sia una regola ufficialmente normata, in base a quanto dice il Corano, non dovrebbe essere dichiaratamente omosessuale per rispettare i precetti religiosi dietro questa pratica. Lo indicano gli enti privati che gestiscono la certificazione halal in Italia che, rifacendosi alla Sharia, decidono chi può o non può lavorare in questa filiera sulla base della religione, del comportamento e dell’identità personale. Si tratta di enti privati di estrazione religiosa, senza il cui timbro una carne non viene considerata halal.
L’esistenza di questa filiera espone un nodo giuridico complesso, che va oltre la discriminante esclusione lavorativa, perché si tratta di un vero e proprio scontro tra due principi fondamentali della Repubblica. Da una parte, la Costituzione (Art. 3) e le leggi sulla parità di trattamento sul lavoro impongono che nessun cittadino venga discriminato per motivi religiosi, di opinione o identitari (come l'orientamento sessuale). In base a questo, un macellatore dovrebbe essere scelto solo per competenza tecnica, non per la sua fede: ma se si esclude la fede si perde l’essenza "halal" secondo i dettami religiosi. Dall’altra lo stesso ordinamento tutela la libertà religiosa (Art. 8 e 19), garantendo alle comunità il diritto di professare la propria fede, anche nella definizione dei propri precetti e la tradizione halal, che per definizione stabilisce chi può macellare e con quali rituali, è parte integrante di questa libertà. Il problema più importante nasce nel momento in cui la carne proveniente da questa filiera entra nelle dinamiche della Pubblica Amministrazione, perché sono sempre di più le scuole e gli ospedali che decidono di proporre diete personalizzate, tra le quali c’è anche quella che prevede la carne certificata "halal".
Ci sono state molte polemiche nel corso degli anni a tal proposito, soprattutto per alcune derive che, anche se isolate, hanno rappresentato temi di forte discussione. Nel 2023 a Lodi è emerso che la carne halal veniva servita a tutti i bambini, non solo a quelli musulmani, scatenando la furia di politica e genitori che chiedevano il rispetto della propria identità, non solo di una minoranza. Ma l’inserimento della halal nelle scuole crea di volta in volta polemiche da parte dei movimenti animalisti perché, al di là della criticità legata alla discriminazione intrinseca di questo tipo di rituale, vengono contestate anche le modalità con le quali l’animale viene ucciso, che non rispettano il diritto a una morte non violenta. La macellazione halal prevede tecniche di uccisione cruente ma l’animale potrebbe prima essere stordito per non soffrire, come avviene già in Indonesia, Paese a maggioranza islamica, dove si è trovato un accordo per rispettare il rituale halal e i diritti degli animali.
È evidente che l’integrazione di questa filiera nel contesto pubblico porti con sé numerose criticità su cui bisognerebbe ragionare. Se lo Stato intervenisse imponendo agli enti di certificazione di assumere qualunque operatore di settore specializzato, eliminerebbe la discriminazione sul lavoro, ma al contempo lederebbe il diritto della comunità musulmana di garantire che la propria filiera alimentare sia religiosamente conforme, intaccando la libertà di culto. Impugnare questo sistema significherebbe, per lo Stato, decidere cosa sia o non sia "halal", pertanto la strategia finora adottata è stata quella del "male minore": "comprimere" in parte l’articolo 3 della Costituzione, tollerando alcune eccezioni in virtù del principio di libertà religiosa. Una stortura non da poco.
La tensione normativa è acuita dal fatto che la certificazione halal è gestita da enti privati che, pur operando nel rispetto della normativa italiana, per quanto riguarda l’idoneità al rito devono applicare i precetti religiosi islamici. Questo comporta di fatto una riserva lavorativa accessibile solo a musulmani praticanti, poiché così prevedono gli standard confessionali riconosciuti dalle principali organizzazioni di certificazione halal.
È chiaro che si è davanti a una zona grigia in cui si muove una filiera milionaria, indirettamente finanziata anche dallo Stato con gli appalti per le scuole e gli ospedali: dove finisce il diritto religioso di un'entità di tutelare i propri precetti e dove comincia il diritto del cittadino alla parità di accesso al lavoro in una nazione laica? È qui che la legge italiana è chiamata a misurarsi in un prossimo futuro ma in tempi brevi, per rispondere ai cambiamenti di una società che va più veloce della capacità di regolamentazione.