
«Don, il mio più grande peccato è quel peccato che non fa fare altri peccati!». Aiuto, cosa potrà essere? Non sono mai stato appassionato di parole crociate, ma almeno in quel caso saprei di quante lettere è la parola e avrei qualche suggerimento di vocali e consonanti. Qui nulla. Il mio interlocutore mi guarda stupito: «Don, non ci arriva? Vuole un suggerimento? Certo, è una cosa che voi preti forse non capite perché vi riguarda poco». Boooo. «Non lo so: me lo dice lei?». «Il lavoro! Lavoro troppo e non riesco a godermi la vita e quindi non faccio peccati! Ad esempio come potrei tradire mia moglie che non ho tempo di respirare!». Come se il peccato fosse solo quello! Già sul collegare godersi la vita al fare peccati avrei qualche cosa da dire. Poi gli ribatterei: quindi se avesse tempo povera moglie! Mi rode però di più che secondo lui noi sacerdoti abbiamo da fare solo mezz'ora di Messa. Ah bello! Vieni con me mezza giornata e vedi come torni di corsa al tuo lavoro! Il confessionale per un prete è sempre una scoperta dell'umanità. Il modo con cui le persone si approcciano non smette mai di stupirmi.
Faccio un respiro profondo: medito che la mia bocca è benedetta dal Signore e quindi blocco l'istinto di sputargli in un occhio, dopo rifletto che la mia mano è consacrata e allora disinnesco la sberla che mi prude. Alla fine devo andare io a confessarmi! Sotto la stola c'è sempre un uomo che ogni tanto perde la pazienza per mille ingarbugliamenti delle giornate non così semplici e vuote come si pensa. Credo per illuminazione divina (visto che il Padre
Eterno ha colto il rischio in cui ero) mi è venuta in mente una facezia. Gliela propongo. Un industrialetto milanese, chiusa per ferie la fabbrichetta, arriva al sud per qualche giorno di mare. Una mattina sul molo vede un pescatore pigramente sdraiato. Schifato chiede: «Uè cribbio, perché non sei in mare?». «Perché ho preso abbastanza pesce per oggi», ribatte da sotto il cappello. «Perché non ne prendi dell'altro?». «E a cosa mi servirebbe?». «Potresti guadagnare per dotare la barca di attrezzature per spingerti in acque più profonde: più pesce, più soldi. Compri un'altra barca, poi 4 e via. Dai retta a me, testina». Il pescatore si era tirato su e lo guardava pensieroso: «E poi?». «Potresti allora rilassarti e goderti la vita», sentenziò tronfio. L'uomo di mare, rimettendosi comodo, mormorò all'industrialetto: «E cosa pensi che stia facendo in questo momento? Mi sto godendo la vita!». L'imprenditore meneghino era con un amico bergamasco, mio conterraneo, che nel frattempo aveva sistemato un muretto sul molo.
Due concezioni di vita. Ambedue hanno sia ragione che torto. Albert Einstein ammoniva: «Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato». A qualcuno l'estate, con lo stacco dalla frenesia del lavoro e il sogno delle vacanze, può far pensare che la vita sia come un viaggio. Qualcun altro risponderebbe subito: «Appunto! È possibile solo se e quando si hanno i soldi!». Da un prete ci si aspetta il solito: «La ricchezza non dà la felicità», ma qualcuno può ironicamente aggiungere
«figuriamoci la povertà!». Eppure Madre Teresa un giorno, vedendo un tale triste, commentò: «Poveretto, è tanto misero! Ha solo i soldi». Le ferie offrono l'opportunità di una presa di coscienza di ciò che siamo, che facciamo, che vogliamo da noi stessi. Si parla di workaholic, alcolismo da lavoro: ci ubriachiamo di cose da fare perché non stiamo bene con noi stessi e con gli altri o perché non sappiamo passeggiare in silenzio nel giardino della nostra interiorità per gustarne colori, profumi, frutti, fantasie. Le vacanze sono allora un tempo particolare di spiritualità per passare dal chiedersi «cosa ci guadagno? cosa ci perdo?», al «quanto mi arricchisce? quanto so dire grazie?»; per passare dal pretendere all'accogliere; per passare dal ritenere cretini quelli che non sono come me, che non pensano come mi aspetto e non fanno come voglio io, al rendersi conto di essere io deficiente (cioè mancante letteralmente) perché non mi accorgo di quanto ricevo, nonostante me. «La vita è fatta d'istinti e d'istanti, il problema è che viviamo distinti e distanti», ho letto.
Basta poco, basta un apostrofo, perché da distinti e distanti ci si scopra invece
arricchiti da istinti e da istanti meravigliosi. Sono la prova che non tutto ciò che conta può essere contato. Non è più questione di conti e ricavi, ma di scoprire il valore del valori che non ha prezzo. Così ci si gode la vita.