La lamentela troppo divisa della dolcissima Big Mama

Cavalcare l'onda del proprio tempo comporta un prezzo, e spesso è una strada senza ritorno

La lamentela troppo divisa della dolcissima Big Mama
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Non sapere nemmeno chi fosse la rapper «BigMama» (nostro caso) ci rende più superficiali e più obiettivi al tempo stesso. Apprendiamo che la ragazza avellinese d'aspetto rotondetto (ma neanche tanto) ha partecipato al concertone del 1° maggio e ha detto così: «C'è tantissimo odio». Parlava degli haters sui social: «Se non vi piaccio cambiate canale, se non vi piace il mio corpo fate in modo di non diventare mai come me, se non vi piace quello che dico, bloccatemi: ma fateci vivere. Che ne sapete della mia storia? Il mio corpo mi ha fatto soffrire, ma io lo perdono, perché non lo potete perdonare voi?».

Non sono cattive parole: anzi. Solo che (rivolgendosi non tanto a lei, ma ai lettori di questo giornale) vien da chiedersi se si renda conto, costei, del meccanismo perverso di cui la sua stessa esistenza mediatica fa parte. Lei, come fenomeno appunto mediatico, presentandosi come personaggio divisivo, a questa divisione deve tutto: odiatori e amatori pari sono, e a entrambi purtroppo è debitrice. La massa critica non si può amputare una volta raggiunta una qualche ribalta. Anche perché, questa ragazza, si è presentata come artista orgogliosamente

grassa (almeno secondo gli stilemi di oggi) e appunto divisiva, votata a esprimere una polarizzazione e una reazione. Qualche titolo di sue interviste prese a caso: «La rapper che lotta per la body positivity», «Sono stata violentata 13enne per il mio aspetto fisico», «Mi hanno bullizzata per il mio peso», «Amo provocare e sfidare i giudizi», «Il Body shaming è violenza», «Sono stata violentata e ho avuto il cancro», «Mi dicevano: fai schifo», «Mi dicevano Cicciona, adesso sono figa». E via così, col risultato, in tono minore, di diventare un po' come Fedez: popolare, ma non certo per le canzoni.

Cavalcare l'onda del proprio tempo comporta un prezzo, e spesso è una strada senza ritorno. L'anno scorso il concorso di Miss Alabama (Usa) lo vinse Sara Milliken, modella ultra «curvy» che in gergo haters significa cicciona di 150 chili: ovviamente è stata massacrata online, non poteva pretendere che milioni di internauti abbracciassero all'unisono il giusto «empowerment» o la «skin positivity» o altre espressioni usate negli ambienti corretti dove va di moda esibire imperfezioni fisiche. Il che, paradossalmente, non produce solo l'idiozia degli haters, ma può fare anche danni seri. Il messaggio di questa ragazza, di BigMama, va anche bene,

e ci importa poco che per non dire «grasso» o «ciccione» circolino locuzioni come «orizzontalmente svantaggiato» e «mangiatore entusiasta»: il problema è che la paranoia dell'inclusività (soprattutto negli Usa, dove una persona su cinque è obesa) da qualche tempo si è inventata anche una pericolosa accettazione della grassezza (fat acceptance) che è in contrapposizione ai patiti del fitness o quantomeno all'esistenza di un «peso forma» per preservare la salute. Anche in Europa, stando ai dati forniti dall'Oms, il 60 percento degli adulti e almeno un bambino su tre sono sovrappeso, o addirittura obesi, tanto che ormai l'obesità è considerata una malattia. E spesso lo è: è una malattia cronica multifattoriale caratterizzata da eccessivi depositi di grasso che possono compromettere la salute.

Tutto questo accade in un mondo dove all'attivismo sulla body positivity si accompagna la fila in farmacia per fare la scorta di Ozempic, il farmaco antigrasso che solo i portafogli gonfi possono permettersi. In effetti è odioso.

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