Gli avventurieri del Duemila così si va a spasso nel mondo

Si chiamano «grandtouristi». Un po’ per gioco e un po’ per passione imitano i vecchi pionieri e hanno scoperto gli angoli più remoti della Terra. Si muovono a piedi o in bicicletta lungo le strade del mito: dalla Via della Seta al giro del globo lungo l’Equatore

L’ispirazione, per Chris Worledge e Michele Roberts, è arrivata da un paio di scarponi. Vecchi, logori, riprodotti in una scultura in pietra che si trova nella chiesa di Odcombe e che, per gli abitanti del Somerset, sono il ricordo di uno dei loro concittadini più intrapredenti, Thomas Coryate. Il figlio del vicario George, uomo di corte e letterato, il 14 maggio del 1608 si è imbarcato su una nave da Dover a Calais, quindi si è spostato a Parigi, a Fountainbleu, a Lione, è sceso lungo le Alpi ed è arrivato a Torino. La sua meta era Venezia, dove è arrivato il 21 giugno. Dopo sei settimane di riposo in Laguna ha fatto retromarcia, da Verona a Zurigo, Basilea, Strasburgo, l’Olanda, la costa britannica, fino al ritorno a Londra, il 3 ottobre dello stesso anno. Un itinerario da Nord a Sud, completamente a piedi. Un viaggio ripercorso nelle Coryates Crudities del 1611, il bestseller delle guide turistiche dal XVII secolo in poi. Resoconto dettagliato e, insieme, manuale per i giovani degli anni successivi, rampolli delle famiglie aristocratiche inglesi, francesi e tedesche che, per completare la propria educazione, non potevano rinunciare al tassello introdotto da Thomas Coryate, il Grand Tour attraverso l’Europa che compare nelle biografie di scrittori, filosofi, cortigiani e scienziati del Vecchio continente fino alla seconda metà dell’Ottocento.
I trentenni Chris e Michele hanno deciso di imitare il pioniere locale e di percorrere chilometri a piedi per poter vedere Venezia con gli occhi di un viaggiatore d’altri tempi, affaticato dal cammino, spossato dagli ostacoli e dalle scomodità del tragitto, famelico per l’attesa della meta, alimentata giorno dopo giorno, passo dopo passo. Nei panni dei turisti elisabettiani, un po’ per gioco e un po’ per passione, i due giovani inglesi hanno impiegato quattro mesi per attraversare l’Europa sulle proprie gambe e, una volta conquistato il trofeo di «grandtouristi», hanno annunciato di essere pronti a una nuova avventura: una passeggiata fino in India, sulle orme del tragitto compiuto dallo stesso Coryate che, in Oriente, ha scritto il suo ultimo libro, prima di morire nel 1617.
Il fascino del Grand Tour, dopo una breve interruzione nel corso del Novecento, torna a influenzare l’immaginario di avventurieri e sognatori e la sua magia ha effetto non soltanto sugli anglosassoni: la versione moderna dell’epopea seicentesca vede come protagonisti uomini (e qualche donna) impegnati in camminate di migliaia di chilometri lungo pianure e montagne di tutto il globo. E non si tratta solo di benestanti, come i figli della nobiltà o della ricca borghesia fra Settecento e Ottocento: molti, per partire, si prendono una pausa di qualche mese dal lavoro, dopo aver messo via i soldi per il viaggio sognato da anni. Alla fine del ’700 erano già decine di migliaia i giovani in cerca di solida cultura che avevano soggiornato a Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Siena, Pisa, Roma, Napoli e Pompei, e poi Agrigento, Taormina, Catania e Palermo, prima di Malta e Grecia, tappa finale di un viaggio di formazione ispirato alla classicità. Un ideale che ha assunto contorni sempre più romantici, con l’Italia protagonista dei viaggi di Goethe, Stendhal e Lord Byron e meta finale per l’esistenza di Percy Bysshe Shelley e John Keats, mentre le signorine di buona famiglia giravano per il continente armate delle guide di Karl Baedeker, quelle che, per prime, hanno cominciato a segnalare l’indispensabile con un asterisco: perché viaggiare era costruirsi un bagaglio e, perciò, non si poteva rischiare di lasciar vuoto neppure un cassettino.
Nel XX secolo il turismo si è lasciato dominare dai trasporti, rapidi, sicuri e sempre più comodi ma, negli ultimi anni, gli esploratori vecchio stile hanno cominciato a ripopolare le strade del pianeta. I pionieri sono stati Tony e Maureen Wheeler, che nel 1972 hanno cominciato il loro viaggio da Londra all’Australia, via Asia, esperienza di interesse pubblico perché è diventata la prima delle guide Lonely planet, icone del turismo vagabondo e poco danaroso. Qualcuno, come il 28enne Alastair Humphreys, per le proprie avventure si è spostato a bordo di una bicicletta, con la quale ha perlustrato il globo in quattro anni, partendo dal Nord dell’Inghilterra. Giunto in Colombia aveva quasi pensato di rinunciare, ma due uomini su uno yacht gli hanno offerto un passaggio fino a Panama, la meta successiva. A quel punto, dopo l’Alaska, rimaneva soltanto l’Oriente. Una volta che cominci è difficile smettere, un po’ come è successo a Thomas Stevens nel 1884: aveva lasciato San Francisco per compiere il primo giro degli Stati Uniti in bicicletta ma, arrivato a Boston, non si è più fermato e ha attraversato il mondo intero (in tre anni).
Anche gli italiani si sono trasformati in esploratori: il torinese Gianluca Rotta, 34 anni, un lavoro in una fabbrica di prosciutti ormai alle spalle, gira per l’Europa, a piedi, da sei anni. Una «maratona dell’anima», l’ha definita, oltre che il tentativo di entrare nel Guinness dei primati. Finora ha consumato dodici paia di scarpe e ha trovato una compagna di viaggio, il cane Shira, incontrata a Marina di Ragusa, in Sicilia, camminatrice infaticabile come lui. O come Marino Curnis, il 32enne del Bergamasco che, all’inizio di gennaio, è partito sulle orme di Marco Polo e di Alessandro Magno: oltre 40mila chilometri a piedi, da Alzano Lombardo al Giappone, per ripercorrere l’antica Via della Seta, attraverso ventisei stati. Unico compagno il carretto «Rocinante», omaggio al ronzino di Don Chisciotte e al furgone con cui John Steinbeck ha vagabondato per gli Stati Uniti nel 1960. Tempo previsto: cinque anni. Sette in meno rispetto a Karl Bushby, l’inglese partito dalla Terra del Fuoco nel novembre del 1998 con l’obiettivo di arrivare nella capitale britannica entro il 2010, dopo aver girato a piedi il mondo intero. È a metà strada della sua impresa che, per rendere l’idea, ha battezzato «Goliath».

Un viaggio da giganti dello spirito (e della resistenza fisica) come quelli dello svizzero Mike Horn, che ha già percorso il globo a piedi due volte, seguendo i paralleli (l’Equatore prima, il Circolo polare artico poi) e si prepara per il 2007 a scoprire i continenti uno a uno. Spedizioni dal sapore epico, pervase dal desiderio di esplorare senza limiti, senza fretta e senza troppe comodità. Come Ulisse, ritardando di proposito il ritorno a Itaca.

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