La ballata dei briganti che odiavano i Savoia

Le vie del rock sono infinite, si intitola l’ultimo disco di Edoardo Bennato. E infinite sono anche le vie per lanciare un nuovo cd, per esempio le dichiarazioni di Bennato su brigantaggio, Unità d’Italia e camorra legate ai nuovi brani C’era un re e Il capo dei briganti. Però credo nell’onestà di Bennato – cantautore intelligente, colto e coraggioso – e il suo pensiero va ben oltre l’opportunità di sfruttare le celebrazioni dei 150 anni per piazzare quelle che, secondo un suo celebre titolo, Sono solo canzonette: e che spesso sono anche qualcosa di più.
Che «il paese» sia «ingovernabile», come ha dichiarato il cantante, è un luogo sin troppo comune: direi piuttosto che, per la maggior parte della sua storia dal 1861 a oggi, l’Italia è stata governata male o non abbastanza. Mi è difficile, invece, smentire un’altra affermazione di Bennato: «L’Unità d’Italia e il patriottismo sono parole create a uso e consumo dei sacri valori e dei libri di scuola». Per non citare un mio libro che sostiene tesi simili, basti leggere Emilio Gentile, Il culto del littorio (Laterza 1994), dove si dimostra come, per creare il senso della patria, i governanti liberali abbiano usato tutti gli strumenti in loro potere – dalla scuola al libro Cuore alla leva militare – riuscendo a far scendere una lacrima dagli italici occhi non appena un tricolore «garriva» al vento. Il fascismo, poi, esasperò questa politica e – nonostante lo sfacelo della Seconda guerra mondiale con annessa guerra civile - ormai il senso (se non il culto) della patria era innestato nel sentire medio degli italiani.
L’Italia, dunque, non è «un’espressione geografica», per citare ancora Bennato, che a sua volta cita Metternich. L’Italia è un grande Paese con problemi altrettanto grandi. Uno dei quali, culturalmente fra i maggiori, è di non avere mai voluto fare i conti con il proprio passato, si chiamasse fascismo (rigorosamente minuscolo) o Risorgimento (rigorosamente maiuscolo). Bennato pensa che «il brigantaggio, sorto all’indomani di Teano, nascesse dall’esigenza di difendere le popolazioni del Sud dai nuovi tiranni, dai Savoia». Un pensiero tagliato con l’accetta, perché il brigantaggio esisteva da ben prima, spesso con connotazioni esclusivamente criminali, e si era opposto a Murat quasi quanto ai Savoia. Ma il concetto di fondo è giusto: si trattò di una guerra civile fra una parte considerevole delle popolazioni meridionali e l’esercito che quelle stesse popolazioni continuavano a chiamare «piemontese».
L’unità era stata compiuta anche grazie alle grandi promesse di giustizia e benessere fatte dai garibaldini e dai liberali, subito smentite dalla realtà di un regime che voleva adeguare – di corsa - una società dalle consuetudini secolari alle nuove regole dello Stato unitario e ipercentralizzato. Di conseguenza il «brigantaggio» - sostenuto dai Borboni in esilio, dal clero, da veri briganti e dalla popolazione civile – fu una rivolta di massa, sociale e politica. Era la prima, dura prova dello Stato unitario; e lo Stato, nel periodo 1861-1864, impiegò quasi metà dell’esercito per vincere la ribellione. Nel 1863 fu approvata la legge Pica, che estendeva la repressione armata alla popolazione civile, ovvero a chiunque fornisse ai «briganti» viveri, informazioni «ed aiuti in ogni maniera».
Luigi Settembrini, patriota e meridionale, arrivò a una conclusione ineccepibile: «L’esercito è il filo di ferro che tiene unita l’Italia dopo averla cucita». Intere regioni furono sottoposte a un regime di occupazione, ebbero villaggi incendiati, coltivazioni distrutte e lutti - decine di migliaia, non si sa quanti - dovuti ai «piemontesi». La crudeltà fu estrema da entrambe le parti, ma la popolazione considerava i briganti eroi coraggiosi contro un invasore.
Ancora ottanta anni dopo Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, scrisse: «Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col passare del tempo, quelle gesta che avevano colpito le loro fantasie (…) sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito». Non è possibile capire il successivo rapporto Nord-Sud, fino ai nostri giorni, fino alla nascita e al successo della Lega, se non si tiene conto di quegli eventi. L’Italia settentrionale assistette inorridita alla guerra, per quanto si cercasse di nasconderne la gravità, e si cominciò a chiedersi se annettere «quei selvaggi» era stato un bene. Il banditismo venne stroncato senza che peraltro venisse risolto il problema della criminalità, né tanto meno quello della sopravvivenza quotidiana dei più poveri, che potevano ben dire: ci avete voluti a tutti i costi, e adesso manteneteci. Invece furono in gran parte costretti alla drammatica emigrazione di fine Ottocento-inizio Novecento. È un problema che andrebbe posto durante le prossime celebrazioni, ma che continuerà a essere ignorato, se non per iniziative di singoli studiosi, di associazioni che vengono definite «borboniche», di cantanti. Bennato esagera di nuovo, pur non avendo del tutto torto, quando sostiene: «Ancora oggi esistono nel nostro sud delle entità, come la camorra, che pensano di difendere la popolazione dallo Stato tiranno. C’è un cancro che mina la nazione e molta gente individua in polizia, carabinieri e guardia di finanza gli strumenti del tiranno».

Temo che la camorra pensi a tiranneggiare la popolazione, piuttosto che a difenderla da un altro tiranno, mentre è vero che gli strumenti polizieschi – o d’ordine – dello Stato vengono visti ancora come «piemontesi» da parte di chi si sente vittima della camorra quanto dello Stato: ovvero di due Stati contrapposti, sulle loro teste.
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