Ogni mese entrano nelle scuole lombarde 500 alunni stranieri appena giunti in Italia. Uninvasione senza soluzione di continuità, che interrompe e frena - a norma di legge - il percorso didattico già avviato nelle classi. Ad ogni inserimento infatti i programmi sono sospesi e rivisti. «È previsto dalla legislazione, lattività didattica va riprogrammata a ogni nuovo arrivo» spiega Giuseppe Colosio, direttore dellufficio didattico regionale, invocando per prima cosa un riesame della legge sullimmigrazione, la Turco-Napolitano del 1998. «Un testo - osserva il dirigente - che ha un taglio più sociale che scolastico-educativo. Andava bene 11 anni fa».
Oggi lincremento degli stranieri sfiora il 20 per cento ogni due anni e la Lombardia è la regione dai numeri più alti, con 9.487 studenti appena arrivati (e che non parlano litaliano) su un totale di 46.154 nel Paese (Sono 3.960 in provincia di Milano e 1.350 nel capoluogo). «Abbandoniamo lidea che lintegrazione è cosa compiuta dal momento in cui i ragazzi vengono mandati a scuola - riflette Colosio - al contrario comincia lì: è nostro dovere mettere la scuola in condizione di favorire il processo dintegrazione». Dice «nostro» e si rivolge a governo e parlamento, perché «noi stiamo facendo moltissimo con pochi mezzi, ma se avessimo maggiore autonomia e una legge nazionale più vicina alla realtà potremmo migliorare la nostra efficacia».
Basta «farsi censurare da un malinteso senso di bontà e accoglienza», insomma, quello che fa delle cosiddette classi ponte un «paradosso strampalato: da sempre la parola ponte ha laccezione positiva del mettere in comunicazione - riflette Colosio - ma qui sinciampa nellideologia e le si dà un significato ingiustamente negativo. In provincia di Brescia esistono e sono gradite agli stranieri, i quali spesso sono i primi a domandarci una scuola più rigorosa, capace di assegnare i compiti a casa. Io però non le istituzionalizzerei: liniziativa va lasciata ai singoli istituti e calibrata sulle necessità del territorio». Dove cè urgenza di uniformità è invece su pochi, ma essenziali elementi che si sintetizzano in un principio. «Maggiore rispetto per lordinamento della Repubblica. Non può diventare prescindibile per gli stranieri ciò che è imprescindibile per gli italiani. Un ragazzo di 15 anni, ad esempio, non dovrebbe essere inserito automaticamente in prima superiore senza esame di scuola media. Bisogna poi rispettare i tempi della scuola: iscrivere gli studenti stranieri solo a settembre, come sono tenuti a fare gli italiani. E va migliorata la loro distribuzione, magari centralizzando le iscrizioni attraverso la questura, così da evitare concentrazioni che fanno prevalere lattività dintegrazione su quella didattica. Una vecchia norma, destinata agli alunni comunitari e ancora valida, prevede che non debbano esserci più di 5 alunni per classe: per gli extracomunitari, paradossalmente, non cè soglia».
In attesa di una riforma, «mettiamo a disposizione risorse per il personale dedicato agli stranieri e lavoriamo sulle strutture di coordinamento». Strano dunque parlare dinsegnamento del dialetto quando litaliano già è una difficoltà. «Perché no? Sarebbe un contrappeso al processo di globalizzazione, che altrimenti diventa sradicamento. Non si può fare formazione senza conoscere il territorio». Osservazione che riguarda anche gli insegnanti. «Io non dico che chi è nato nel Sud debba stare al Sud. Ma la professione delicata e richiede un radicamento. A meno che si decida di fare come gli Spartani, che allontanavano i figli dai genitori: ma sarebbe una cultura dello Stato, non della famiglia come prevede la nostra Costituzione.
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