Politica

«Bastava valutare meglio la sua pericolosità»

L’onorevole Pecorella: se l’imputato è a rischio il magistrato può prescrivere misure più severe

Federica Artina

Gaetano Pecorella, presidente della Commissione Parlamentare permanente Giustizia II della Camera dei Deputati, è quantomeno perplesso dopo i fatti di Treviso. «Non riesco a capacitarmi di come potesse quel ragazzo essere in libertà».
Onorevole, cosa recita esattamente la legge in materia di imputati tossicodipendenti?
«La legge Gozzini, introdotta nel 1986 e perfezionata nel 1991–92 con provvedimenti di contrasto alla criminalità organizzata, prevede che i tossicodipendenti, quando possibile, vengano affidati alle comunità terapeutiche piuttosto che finire in carcere. Poi sta alla discrezionalità del giudice determinare la pericolosità effettiva dell’individuo».
Il magistrato di Treviso ha detto di non aver potuto comportarsi diversamente.
«Diciamo che spesso bisognerebbe stilare prognosi più prudenti nei confronti di questi ragazzi. La tossicodipendenza non è il semplice vizio di assumere sostanze stupefacenti, ma una vera e propria malattia che, come tale, va curata da persone competenti in strutture adatte. Ma spesso i soggetti risultano socialmente pericolosi e allora è necessario procedere con la carcerazione».
Emanuele Crovi era stato appena scarcerato. Forse in comunità avrebbe potuto risolvere i suoi problemi?
«Spesso le comunità terapeutiche vengono condannate per mancanza di responsabilità della custodia di potenziali criminali. In questo caso per il soggetto era stato scelto evidentemente il carcere a causa anche dei suoi numerosi precedenti: da quando era minorenne continuava a far rapine, le forze dell’ordine lo conoscevano molto bene».
Quindi un giudice ha la discrezionalità di decidere se un soggetto è recuperato?
«Il magistrato ha la facoltà di dichiarare un imputato pericoloso o non pericoloso, e da qui dipende la sua permanenza in carcere o nelle comunità terapeutiche. Ripeto, tutto dipende dal grado di pericolosità che caratterizza l’individuo, e che viene stabilito con un’indagine dei servizi sociali e tenendo conto dei precedenti penali dell’imputato. Nessuno manderebbe in comunità un serial killer: certi crimini sono frutto di pericolose situazioni di disagio, e la comunità non può essere investita dalla responsabilità di una sorveglianza di tale importanza».
Cosa si potrebbe fare per evitare il ripetersi di simili episodi?
«Ritengo che la legge attuale sia già un buon punto di partenza. Probabilmente basterebbe semplicemente applicare con più scrupolosità i criteri di giudizio e di custodia su certi individui la cui suscettibilità al crimine è nota.

Con diagnosi più raffinate le misure preventive sarebbero conseguentemente più adatte».

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