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È una battaglia fuori dal tempo, meglio imparare bene l’inglese

L’italiano è davvero una bella lingua. È indispensabile per leggere la Commedia dantesca e i sonetti di Petrarca, ed è anche la lingua della tradizione musicale. Grazie a Monteverdi, Corelli e Vivaldi - per non parlare della lirica ottocentesca -, il ruolo dei compositori italiani è stato così significativo che tuttora le notazioni che compaiono nelle partiture stampate in tutto il mondo («andante», «accelerando», «a capo») sono nel nostro linguaggio.
L’italiano rappresenta pure uno strumento fondamentale per quanti - storici e critici d’arte - sono chiamati a indagare quell'epoca, collocata tra Medio Evo e Rinascimento, in cui a Firenze, Venezia, Siena e Genova si sviluppava il meglio della civiltà europea.
Questo è fuori discussione. Eppure la battaglia del ministro Andrea Ronchi in difesa dell’utilizzo della lingua italiana all’interno della modulistica europea e nelle prove concorsuali per l’accesso alle carriere della burocrazia di Bruxelles appare davvero fuori luogo.
Nell’interesse degli europei tutti, bisognerebbe battersi non già per reintrodurre l’italiano tra le tre lingue che vantano uno statuto privilegiato (insieme a inglese, francese e tedesco), ma semmai per far sì che francese e tedesco siano declassate. L’Europa medievale si è integrata culturalmente ed economicamente attorno a una sola lingua comune, il latino, e la stessa cosa succederebbe ora se le istituzioni politiche ammettessero - come già hanno fatto imprese e università - il primato dell’inglese. Quanti mandano i figli a lezione di lingua straniera l’hanno capito. Al solito, è la politica a essere in ritardo.
Perché se c’è un serio problema linguistico da affrontare, esso va visto nelle gravi difficoltà che gli italiani incontrano quando devono utilizzare l’inglese. La vera emergenza da affrontare, allora, non è affatto la penalizzazione della nostra lingua.
Va aggiunto che lo stesso toscano, impostosi nell’intera Penisola a seguito dell’unificazione realizzata da Casa Savoia, oggi giustifica il proprio primato nel Paese quale lingua veicolare: poiché è il migliore strumento per favorire la comunicazione tra friulani e sardi, emiliani e pugliesi. E se è giusto evitare che la tutela delle tradizioni locali non ci conduca entro una babele linguistica, non si vede perché si dovrebbe consegnare a tale destino l’Unione.
Non va dimenticato che le istituzioni comunitarie sono prigioniere delle rivendicazioni di ogni Paese (anche piccolo: si tratti di Malta come dell’Estonia), poiché i deputati europei hanno il diritto di esprimersi nella loro lingua e di seguire in diretta la traduzione degli interventi altrui. Il risultato è che abbiamo un esercito di traduttori che grava sulle spalle dei contribuenti, anche se tutto questo rappresenta un’offesa al buon senso.
La stessa prospettiva di facilitare l’accesso dei giovani italiani ai concorsi europei, che ha giustificato l’iniziativa del ministro, lascia perplessi.
Com’è noto, il nostro apparato pubblico non gode di buona fama. Tra gli italiani vi sono eccellenti imprenditori, ottimi cuochi, apprezzati architetti e stilisti celebrati. Sappiamo primeggiare in molti settori, ma senza dubbio non siamo tra i migliori quando si tratta di far funzionare un apparato pubblico. Per il bene di tutti, dovremmo allora accogliere senza problemi l’ipotesi che negli anni a venire vi siano più olandesi che italiani a occuparsi dell’Europa.
Dobbiamo inoltre far sì che le nuove generazioni guardino sempre meno in direzione del posto pubblico e sempre più verso il mercato.

La situazione economica è difficile, ma gli italiani sapranno venirne fuori se avranno la forza di aprirsi al mondo (e questo implica anche una migliore conoscenza delle lingue straniere) e se sapranno preferire ai ruoli impiegatizi l’avventura di un lavoro nel settore privato. In un suo pezzo straordinario di trent’anni fa, Mimmo Cavallo riconobbe che «il Sud è una famiglia parastatale». A ben guardare, l’Italia intera è un po’ così. È però assolutamente indispensabile cambiare registro.

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