Il Bel Paese imbruttito, passato dalla vita dolce a quella (troppo) bassa

Abbiamo fatto della volgarità la nostra bellezza, rinunciando a essere e accontentandoci di esistere

La vita bassa, il tanga, l’infradito, le sneakers, il leopardato, il loft, il cool, il web, il mansardato, il Democrat, la Governance, l’Enforcement, il Welfare, la Privacy, il Red, Competition is Competition, oh yes, we can...

Da dove cominciamo, dove siamo andati a finire? L’Italia è questa cosa qui, di cui fatichiamo a definire i contorni, da cui fatichiamo a mantenere le distanze, un concentrato di stereotipi e di parole d’ordine a braccetto con le mises più improbabili. Politici che vestono come gangster, gangster che vestono come collegiali, collegiali che vestono come mignotte... Aveva intuito tutto Longanesi mezzo secolo fa: «Una società, la nostra, in cui ogni cosa assomiglia a un’altra diversa. Palazzi che sembrano navi; negozi che sembrano cliniche; chiese che sembrano garages; scuole che sembrano prigioni. Il revolver soltanto sembra un revolver. Ci deve essere una ragione». Allora era l’alba di una mutazione architettonica, la babele degli stili avendo perso una coerenza stilistica, oggi è la grande mutazione antropologica e linguistica. Guardiamo i nostri figli e non li riconosciamo. Parliamo e non ci rendiamo nemmeno conto di cosa stiamo dicendo.

Va di moda il linguaggio prêt-à porter. «Benigni ha avvicinato i giovani alla Divina Commedia» diciamo ispirati. Ovvero, «Pavarotti ha avvicinato i giovani alla lirica». Ma anche: «Con la caduta del Muro di Berlino si è chiusa un’epoca», «Con l’11 settembre si è chiusa un’epoca», «Con l’elezione di Barak Obama si è chiusa un’epoca...». Resta solo qualche perplessità. «Mas cchessomài sti zingari rummeni? Sso bullgari?».

Va di moda l’abbigliamento prêt-à-porter, di cui Alberto Arbasino dà conto, fra l’altro, in un libretto non a caso intitolato La vita bassa (Adelphi editore). «I giovani in magliette luride e jeans cenciosi oppure in completini neri da ufficio con camicie bianche e scarpette cacchina, innumerevoli vecchi più o meno canuti e tinti, ma generalmente furibondi, ragazze con fuori tutte le cicce, ragazzi con fuori altre cicce sopra la vita bassa».
Va di moda l’alimentazione prêt-à-porter. Il brunch, il lunch, il light-lunch, l’after hour, l’happy hour, il fusion nei lounge-bar, a braccetto con «gli antichi sapori» e lo slow food: l’aceto balsamico, la trattoria della Sora Lella, la coratella, la stracciatella, la panzanella... È come un diluvio che tutto lava e sommerge, servito su piatti triangolari, rettangolari, ottagonali. Tanto poi c’è il fitness, il pilati, lo spinning, il body contact, il body language, il body massage...

«La vita bassa» di Arbasino è un po’ la metafora di ciò che siamo, un Paese che si è messo i pantaloni sotto le chiappe e se li tira su ogni volta che fa un passo. Dalla vita in su è la fiera dello stracafonal made Roberto D’Agostino, il compendio di tic, desideri, ossessioni di un popolo che ha fatto della bruttezza la propria bellezza, un esercito di tronisti e di veline, postini dell’amore e del dolore, teorici dell’effimero e sacerdoti del rito presenzialista: «Appaio, dunque sono». Persi in un modello di sviluppo di cui ci sfuggono i contorni e non sono più così certi i fini ultimi, gravati da una crisi del Politico che sotto una contrapposizione fittizia destra-sinistra nasconde la medesima difficoltà a dar risposte adeguate, preoccupati da un orizzonte economico sempre più fosco, siamo un Paese che ha rinunciato a essere e si accontenta di esistere. Come tarantolati, affidiamo le nostre chances di riuscita individuale al nostro non saper fare nulla, motivo d’orgoglio e non di vergogna, visto che anche se si sapesse far qualcosa, sarebbe comunque inutile. La Casa, l’Isola, il Condominio, la Talpa, la Biscia, la Zoccola (nomi veri e nomi falsi, è lo stesso) raccontano l’invasione della mediocrità che vuole diventare famosa proprio perché mediocre, che reclama il successo come le fosse dovuto. «Anche noi» dicono i suoi rappresentanti, «perché noi no?» protestano.

«È la stampa, bruttezza» dice Arbasino. Come definire altrimenti le rockettate del Primo maggio 2008 sui teleschermi dove le celebrazioni delle morti bianche sul lavoro torinese sono affidate a «smandrappati e sgallettate punk funk, afrocult, tribal fuck, stereopissed, videoshit»?.. «È la stampa, bruttezza», diciamo noi con lui di fronte al trend antipopulista che oppone alla volgarità, berlusconiana, of course, «il proprio status di miliardari esemplari, sempre benpensanti nel senso giusto e mai populisti nell’accezione pecoreccia, con dietro tutto un salottismo illuminato, e fior di pranzi placés col fior fiore degli ex capi del Pci d’antan e delle Rifondazioni di nicchie anche se tardive e depennate nel mix effimero del “verismo” clientelare e carrieristico».

Magari è «il Nuovo che avanza» sotto il profilo estetico-sociologico e bisogna farsene una ragione. Ma non vi suona strano che per offendere qualcuno da noi gli si dia del «signore»? «Il signor Berlusconi non sa», «Il signor Veltroni ignora»... Così, con sprezzo, così, con disprezzo... Non vi suona strano ritrovarsi come dandies manager dalle babbucce rosse firmate, giornalisti cataloghi ambulanti dell’ovvio di lusso, politici che sono il re dell’accessorio, i cantori del rigatino di velluto e delle clarks anche d’estate? Gente che per confermare la propria eleganza fa il nome del cravattaio alla moda da cui si serve, del sarto di grido presso cui si veste, della spa dove, gratis, va in vacanza per ritemprarsi? Ma, una volta, non li si sarebbe definiti parvenus?

Magari è «il Nuovo che avanza» nel campo della politica, e anche qui bisogna farsene una ragione. E certo, suona irreale il Luigi Einaudi (una bella mostra lo ricorda ora a Milano) del racconto di Ennio Flaiano. Un pranzo al Quirinale, lui, Gorresio, un altro collega e l’allora presidente della Repubblica, un vassoio di pere portato dal cameriere, Einaudi che ne prende una e dice ai suoi commensali: «C’è qualcuno che vuole spartirla con me?». «Era il tempo delle pere spartite» commenta Flaiano. «Poi venne quello della spartizione delle pere. E dell’Italia»... Eppure, e senza nostalgie, «ricordanze,... Rimembranze... Remember... September...» come dice Arbasino, cosa dobbiamo dire di questo diluvio di dichiarazioni, controdichiarazioni, smentite, soliloqui, turpiloqui, cachinni, sberleffi? Uno dice «la ricreazione è finita» e intanto dalle proteste vien giù il mondo della scuola, un altro difende con fierezza l’istruzione pubblica, ma intanto manda i figli negli istituti privati, c’è chi dà del terrorista al nuovo presidente degli Stati Uniti e si ritrova come un terrorista sui manifesti dell’opposizione, c’è chi si lamenta perché la politica gli ha impedito di vincere un Premio Nobel e non c’è nessuno che lo interni... Il tutto, naturalmente, in un’euforia di Governance, Politica del Territorio, Valori Identitari, Rappresentatività, Serietà, nel contesto, nel digesto, nel regesto, nella misura in cui...


No, non è questione di guardarsi indietro, il «torniamo al passato, sarà una novità» del povero Giuseppe Verdi (a proposito, chi era? Un cantante rock, un regista pulp, un attore hard, boh.. Urge una Giornata della Memoria, Per Non Dimenticare, Per Ricordare...). Però, se intanto ci tirassimo su la vita dei pantaloni? Non per altro, per non inciampare proprio sul traguardo...

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