Mi rendo conto che questo sarà un commento fuori dal coro, ma proprio non me la sento di tacere il mio sconcerto per lo strano contratto concluso tra il Comune di Milano e il maestro Claudio Abbado: 90 mila nuovi alberi (+50% rispetto alla dotazione attuale) da piantarsi in città in cambio di un ritorno alla Scala dopo quasi un quarto di secolo, per due concerti da tenersi nel giugno 2010. Non ho nulla contro il settantaseienne Abbado, anche se i suoi diciotto anni di direzione del teatro milanese furono contrassegnati da mille polemiche per le sue iniziative di rottura - come la presentazione di opere contemporanee scarsamente popolari, l'invenzione dei famosi «concerti per operai e studenti» e il tentativo di trasformare la Scala da luogo destinato alla musica a luogo dedicato alla cultura in generale - e non si conclusero proprio in armonia.
Non ho nulla neppure contro un aumento del verde, sempre apprezzabile, anche se la proliferazione nell'intero centro storico degli enormi vasi necessari per ospitare le piante non mi sembra un gran contributo al panorama e potrebbe perfino essere bocciata dalla Sovrintendenza.
Quel che mi lascia perplesso è il modo in cui si è arrivati a questa decisione e il peso che la passione ambientalista di un pur illustre cittadino milanese (oltre tutto assente da molti anni) ha assunto in una materia che - nel bene e nel male - riguarda tutti quanti e che dovrebbe essere gestita in maniera istituzionale. Le ambizioni di Abbado, tra l'altro, sembrano andare anche oltre quella di riempire la città di alberelli: in una intervista al Corriere sostiene che il suo sogno è la chiusura del centro al traffico privato, una questione che Milano dibatte da tempo immemorabile, ma che forse andrebbe trattata con altri criteri e ad altri livelli.
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