Berlusconi: Fini è fuori, se serve rivotiamo

Il premier: "Risolveremo la vicenda, ho i numeri per andare avanti". Bossi: "Le strade dei due si separeranno". Si lavora a un documento contro gli ultras finiani Bocchino, Briguglio e Granata che hanno tradito il Pdl

Berlusconi: Fini è fuori, se serve rivotiamo

Roma - Il «ghe pensi mi» berlusconiano si traduce nella personalissima gestione della pratica Fini e finiani. Personalissima perché dal suo entourage, ieri, non trapelava nulla. Bocche cucite perché «ci sta pensando il presidente in persona e alla fine deciderà lui come risolvere la questione». L’idea sarebbe quella di dare un’accelerazione alla crisi perché «così non si può più andare avanti». Ostenta sicurezza, il premier, e quando arriva alla Camera per votare la fiducia alla manovra correttiva, al capannello di parlamentari che lo circonda assicura: «State sereni, domani risolviamo il problema e andiamo avanti».

Si starebbe lavorando di cesello a un documento fortissimo contro Fini e i suoi per dimostrare che i finiani hanno tradito il mandato degli elettori mentre il presidente della Camera non è più super partes. Per esempio, si ricorderebbe come fu proprio Gianfranco Fini a spingere sul processo breve in luogo della prescrizione breve, salvo poi decretarne la morte con un’intervista a Repubblica, all’indomani della bocciatura del Lodo Alfano: «Il processo breve sembra finito su un binario morto», disse all’epoca il presidente della Camera. Il documento-j’accuse dovrebbe essere portato in ufficio di presidenza del partito domani e messo ai voti per palesare una spaccatura vera e propria con i frondisti. Nel mirino di Berlusconi ci sono finiani più ultras: Italo Bocchino, Fabio Granata e Carmelo Briguglio in testa, per i quali si chiederebbe il procedimento disciplinare. Ancora incerto il tipo di espulsione richiesta: dal partito o dai gruppi? Nel primo caso la questione investirebbe i probiviri e la procedura sarebbe ben più complicata. Nel secondo caso la pratica sarebbe più agevole.
Guerra aperta, insomma, nel tentativo di delegittimare agli occhi degli italiani il primo responsabile che non permette di governare. Certo, c’è il rischio che i frondisti si dipingano neo martiri del «regime» berlusconiano ma il Paese alla fine capirà che l’unico colpevole dello stallo è la terza carica dello Stato. Il tema principe su cui inchiodare i finiani alle proprie responsabilità politiche è la giustizia. L’accusa è di aver gettato alle ortiche ogni tipo di garantismo per cavalcare le inchieste della magistratura più politicizzata al fine di disarcionare il premier. E poi sarà clava con messaggi, dichiarazioni, prese di posizione nette per dipingere Fini per quello che è: un traditore. Qualcuno, in Transatlantico, valutava pure l’ipotesi di un intervento solenne in Parlamento: un discorso alto sull’anomalia italiana del rapporto tra politica e giustizia, un excursus su tutte le inchieste a orologeria scoppiate per togliere di mezzo chi è stato scelto dagli elettori per governare. Una sorta di «predellino istituzionale» da fare direttamente alla Camera, di fronte al Paese, ai deputati e al loro presidente. Un’ipotesi, questa, i cui dettagli sarebbero stati discussi in un summit tra i suoi fedelissimi convocato a palazzo Grazioli, cui hanno partecipato anche La Russa e il sindaco di Roma Alemanno.
Il fine sarebbe arrivare al divorzio, confermato dalle parole di Bossi: «Ognuno andrà per la sua strada». Ma è evidente che non è così semplice ottenerlo, anche alla luce dell’ultima mano tesa di Fini: «Resettiamo tutto senza inutili mattanze». Con i suoi, ieri notte, Berlusconi ha ragionato sul da farsi. Accogliere il ramoscello d’ulivo o rigettarlo cercando il redde rationem? Di certo lo strappo finale è messo in conto, anche pagando il prezzo di andare a sbattere. Proprio per questo si ragiona sui numeri. «Ho i numeri per andare avanti», dice sicuro il premier alla conferenza degli ambasciatori italiani alla Farnesina, pensando forse al giro di consultazioni avviate con i centristi ma soprattutto agli incontri avuti in mattinata a palazzo Grazioli. Nella sua residenza romana il Cavaliere ha infatti incontrato i Liberaldemocratici Daniela Melchiorri, Italo Tanoni, Antonio Merlo e Maurizio Grassano; e anche l’ex Pd Riccardo Villari. Pare inoltre che anche qualche esponente rutelliano sia pronto a dare una mano alla maggioranza. Un pidiellino in Transatlantico giurava: «Siamo già in doppia cifra», assicurando che, qualora i finiani dovessero mettersi di traverso il governo sarebbe blindato. I numeri? Dalle parti berlusconiane si insiste: «Fini bluffa. Alla fine disposti a morire per il presidente della Camera sono molti meno di quanto dicono loro». E quel «morire» significa arrivare alle estreme conseguenze di un «tutti a casa e tornare al voto».

È determinato il Cavaliere e intende andare avanti nonostante «il clima avvelenato». Spiega: «Da sedici anni sono perseguitato dai giudici per dei fatti che io, e l’ho giurato sulla testa dei miei figli, non ho mai commesso.

Non è facile resistere ma io ho resistito per certi versa la mia è stata una resistenza eroica». Non solo: «Ho resistito a un anno di attacchi e di critiche ma ho senso di responsabilità e se non fosse stata approvata la manovra o avessimo fatto cadere il governo avremmo fatto la fine della Grecia».

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