Silvio Berlusconi è considerato l’alleato numero uno di Israele in Europa. Le fondamenta su cui si basa questa amicizia.
«Tutta la mia vita, prima come imprenditore, poi come presidente del Consiglio, è stata improntata all’amore per la libertà. Il popolo ebraico ha creato in Medio Oriente, con coraggio e perseveranza, uno Stato che è un monumento alla democrazia. Israele è un pezzo di Europa. Appartiene all’Occidente, crede nei valori di democrazia nei quali crediamo anche noi. Per questo sono sempre stato vicino a Israele, per questo da capo del governo ho cambiato la politica estera italiana, trasformando l’Italia nel migliore amico di Israele in Europa. Al tempo stesso, ho coltivato i rapporti con i leader moderati del mondo arabo e musulmano. L’Italia è oggi una tappa obbligata, spesso la prima, delle visite in Europa dei leader mediorientali. Ci sentiamo coinvolti nella ricerca di una soluzione duratura e globale della questione palestinese. L’Italia ha offerto la bella città di Erice come possibile sede dei futuri colloqui di pace».
In una recente intervista ad Haaretz, Tony Blair ha dichiarato che esiste un fronte unico del terrorismo internazionale che va dall’Iran all’Afghanistan, dal Pakistan alla Somalia fino allo Yemen. La percezione della minaccia terroristica e i possibili rimedi, oggi.
«Ha ragione Blair. C’è un fronte unico del terrorismo internazionale. Proprio per questo deve esistere un fronte unico dei Paesi che ripudiano e combattono il terrorismo. L’Italia fa la sua parte. Abbiamo accolto subito l’invito del presidente Obama a rafforzare il nostro contingente in Afghanistan con altri mille uomini nel 2010. Abbiamo dichiarato la nostra disponibilità a introdurre i body scanner negli aeroporti. È sul terreno concreto del contrasto e dell’intelligence che si decide la lotta contro il terrorismo. Ma i nostri militari che operano per la pace in diverse aree del mondo sono conosciuti soprattutto per la capacità di stabilire dei buoni rapporti con le popolazioni locali. Bisogna togliere ad Al Qaida la base stessa delle sue campagne d’arruolamento, in Medio Oriente come in Europa. E bisogna vigilare sui Paesi che sembrano vicini a dotarsi dell’arma nucleare, magari coltivando il folle desiderio di cancellare Israele dalla mappa geografica».
Il contributo concreto dell’Italia e dell’Europa per fermare la corsa iraniana al nucleare.
«Prima di tutto l’intera comunità internazionale deve decidersi a stabilire con parole chiare, univoche e unanimi, che in linea di principio non è accettabile l’armamento atomico a disposizione di uno Stato i cui leader hanno proclamato apertamente la volontà di distruggere Israele e negano insieme la Shoah e la legittimità di un focolare nazionale ebraico. Su queste cose a me non piace scherzare, eludere il problema, diplomatizzare in modo formalistico le questioni. La tragedia della guerra mondiale e dello sterminio degli ebrei d’Europa non comincia il 1° settembre del 1939, con l’invasione della Polonia: comincia con il cedimento delle democrazie occidentali a Monaco, comincia con lo spirito di Monaco che prometteva “pace per il nostro tempo” e invece diede il via a una delle stragi più grandi della storia umana. Detto questo, la via del controllo multilaterale sugli sviluppi del programma nucleare iraniano, del negoziato intelligente, delle sanzioni efficaci è quella da percorrere. Bisogna esigere garanzie ferree dal governo di Teheran, impegnare in modo significativo l’Agenzia internazionale per l’Energia atomica nel controllo ispettivo e nella certificazione dei passi avanti eventuali del negoziato. Non si deve respingere alcun segnale di buona volontà da parte iraniana, ma e già accaduto che gli sforzi di dialogo siano stati frustrati dalla logica dell’inganno e del comprare il tempo. A chi voglia metterci di fronte al fatto compiuto occorre dare risposte robuste e maliziose».
È stato il presidente Berlusconi, negli anni scorsi, a guidare l’iniziativa che ha portato all’inclusione di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione europea. La conflittualità tra fazioni palestinesi e la preclusione verso Hamas.
«Io dico sempre ai miei interlocutori, ai leader dei Paesi che accusano Israele di sviluppare una politica aggressiva degli insediamenti, che la pace dipende anche dall’unità che il mondo palestinese riuscirà a ricostituire al proprio interno. È la conflittualità tra fazioni palestinesi a indebolirne i leader come interlocutori e a creare disorientamento. Solo una ritrovata concordia tra i palestinesi può rendere credibile la ripresa di autentici negoziati di pace con Israele. Inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione europea è stato un atto doveroso. Ma non è stato facile. Non è, e non sarà, possibile alcun confronto con chi non accetta i tre principi del Quartetto, e cioè la fine della violenza, il rispetto degli accordi precedenti e il riconoscimento esplicito e assoluto di Israele. L’esistenza e l’identità storica di Israele vanno assolutamente difese. Naturalmente, il diritto alla pace di Israele si specchia nel diritto dei palestinesi alla costruzione di uno Stato indipendente».
Il coinvolgimento di Siria e Libano nel processo di pace in Medio Oriente.
«Henry Kissinger diceva che in Medio Oriente nessuna guerra è possibile senza l’Egitto, ma nessuna pace è possibile senza la Siria. Grazie al coraggio di statisti come Sadat e Begin, l’Egitto è uscito definitivamente da questo schema e il presidente Mubarak ha continuato con determinazione su quella strada. È arrivato il momento in cui Siria e Israele lavorino insieme per una pace che preveda la restituzione del Golan insieme con l’avvio di relazioni diplomatiche e di amicizia tra i due Paesi e alla cessazione, da parte di Damasco, del sostegno alle organizzazioni che non riconoscono il diritto all’esistenza di Israele. Stiamo tutti lavorando per una soluzione globale e la presenza italiana in Libano lo testimonia».
Il presidente Berlusconi è l’ideatore del cosiddetto Piano Marshall per il Medio Oriente, un’idea che ha raccolto nel corso degli anni il consenso di tutte le parti. Il contributo che la prospettiva di un rilancio economico può concretamente offrire a chi spera nella pace.
«Non c’è benessere senza pace, ma anche la prospettiva del benessere può essere di spinta alla costruzione di una pace che magari sembra impossibile. È evidente che il Piano Marshall si potrà realizzare solo dopo la ricomposizione del conflitto, ma la sola aspettativa di un rilancio dell’economia palestinese con le sue ampie ricadute regionali su Israele e la Giordania dovrebbe essere già di per sé uno sprone per riallacciare il dialogo. Penso alla concreta possibilità di promuovere il turismo religioso nei Territori, alla costruzione di accoglienti infrastrutture alberghiere, a opere importanti come il collegamento tra il Mar Rosso e il Mar Morto. L’alta disoccupazione tra i palestinesi è chiaramente un vantaggio per le organizzazioni che profittano della povertà e della disperazione per reclutare estremisti. Il premier Netanyahu, così come i suoi predecessori, si è detto favorevole al Piano Marshall e al percorso di una “pace economica”. In tutte le sedi, bilaterali e internazionali, ho raccolto consensi su questa mia idea. Ci lavoro da oltre dieci anni e spero di poter coronare questo sogno. Ma diciamoci la verità: la West Bank si sta già rilanciando economicamente, la scelta di stare meglio, che poi è la scommessa della pace economica o del piano Marshall, la stanno già compiendo le popolazioni palestinesi. Uno Stato o una autorità nazionale non si costruiscono con proclami e violenze, ma con la ricerca perseverante del bene comune per il popolo. Le classi dirigenti palestinesi sono chiamate a questa missione, che è il vero possibile nucleo di una futura autonomia e unità nazionale nella convivenza e nella pace con i vicini, con Israele, e con un Israele sicuro, prima di tutto».
I sentimenti con i quali Silvio Berlusconi si prepara a parlare per la prima volta davanti alla Knesset.
«Ho già detto quale sia la motivazione profonda della mia amicizia verso Israele e il suo popolo, un’amicizia che si rinsalda tutte le volte - ormai capita spesso - che incontro le associazioni ebraiche in Italia e all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Voglio aggiungere che mi ha profondamente segnato la visita che ho fatto ad Auschwitz. Là mi sono detto: non si può non essere israeliani».
La politica israeliana degli insediamenti.
«La politica israeliana degli insediamenti può rappresentare un ostacolo alla pace. Voglio dire al popolo e al governo israeliani, da amico, con il cuore in mano, che perseverare in questa politica sarebbe un errore. Ho apprezzato il coraggio del premier Netanyahu che ha annunciato una moratoria di dieci mesi. Non si potrà mai convincere i palestinesi della buona volontà di Israele, se Israele continuerà a edificare su territori che dovrebbero essere restituiti nel quadro di un accordo di pace. Tuttavia quanto accadde a Gaza deve farci pensare. Non si possono rimuovere gli insediamenti per avere sinagoghe bruciate, devastazioni e violenza infra-palestinese e lanci di razzi in territorio israeliano. Gli arabi vivono in Israele e partecipano alla sua splendida vita democratica, e la guerra sarà davvero finita quando i palestinesi accetteranno di ripristinare la grande tradizione araba di tolleranza e di ospitalità verso gli ebrei nel loro territorio. Anzi, oggi bisogna andare oltre la tolleranza e affermare una piena convivenza e cooperazione, con una totale libertà religiosa, civile e culturale. Condannare gli insediamenti con gli stessi argomenti dell’estremismo è troppo facile, è ipocrita e non è degno delle classi dirigenti dell’Occidente democratico. Io non ci sto».
Le ragioni dell’altissimo tasso di popolarità di cui Berlusconi gode in Italia nonostante le polemiche di questi ultimi mesi.
«Io sono stato vittima per molti mesi di una campagna di stampa che è stata probabilmente la più aggressiva e calunniosa di quante ne siano mai state condotte contro un capo di governo. Ho subito aggressioni politiche, mediatiche, giudiziarie, patrimoniali e anche fisiche. Ma gli italiani, che hanno buon senso, mi hanno confermato la loro fiducia che è salita al 68 per cento, una percentuale addirittura imbarazzante per il leader di una democrazia occidentale. Per loro hanno contato i risultati concreti della mia azione di governo, che sono stati tanti e importanti».
Il bilancio della propria carriera di leader. Di cosa va più fiero e cosa non ripeterebbe o farebbe diversamente.
«Non cambierei nulla di quel che sono riuscito a fare. Mi trovo a essere il presidente del Consiglio che ha governato più a lungo nella storia della Repubblica italiana e quindi ho avuto la possibilità di realizzare molte riforme, dalla scuola all’economia, dalla pubblica amministrazione alle infrastrutture e anche il prestigio dell’Italia sulla scena internazionale è aumentato per i tanti contributi che abbiamo dato alla soluzione di tante situazioni difficili. Il mio problema non è il bilancio del passato, che è buono pur con tutti i possibili errori, il problema è realizzare il sogno del futuro: uno Stato meno invadente, un cittadino più autonomo, più responsabile, più libero.
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