Bianchi, ministro dandy che sogna Fidel e un’Italia a 120 all’ora

Alla notizia che il dicastero dei Trasporti andava ai Comunisti italiani, il primo istinto dei dipendenti fu il suicidio collettivo. Poi corse voce che ministro sarebbe stato Giampaolo Patta della Cgil e l'ecatombe fu sospesa in extremis. Sia pure sinistro forsennato, il sindacalista passava per conoscitore dell'Amministrazione e si decise di dargli fiducia. Ma il giorno stesso Patta si mise in urto con Prodi dichiarando che il governo era troppo di destra. Il Professore prese cappello, degradò l'incauto a sottosegretario (alla Salute) e nominò al suo posto il compagno di partito, Alessandro Bianchi.
Bianchi? Il nome non diceva niente a nessuno. L'interrogativo «Bianchi chi?» percorse i meandri del ministero senza trovare risposta. La curiosità di sapere chi fosse il Carneade restituì a tutti la voglia di vivere e ognuno si piazzò sulla soglia aspettandone l'ingresso. Quando Bianchi giunse sormontato da un punto interrogativo, l'impressione fu enorme. Il sessantunenne ministro era un tipo di alta statura e dall'andatura solenne. Non camminava, incedeva. Fu notata l'eleganza del vestire, il petto rigonfio come la nota prelibatezza natalizia, la stratosferica autostima. Ma più di ogni cosa colpì la complessità della testa. Lunghi capelli bianchi, basettoni bianchi, baffi bianchi, barba bianca. Fece l'effetto di un cespuglio innevato. Unico indizio che si trattasse del Bianchi in carne e ossa, gli occhiali tartarugati nel mezzo del folto.
Il primo problema del ministro ignoto fu farsi conoscere. Girarono subito le biografie e si scoprì che era un ingegnere che faceva l'architetto e che ricopriva il ruolo di rettore dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria. Gli fu perciò chiesto cosa pensava del Ponte sullo Stretto. «Opera di regime, inutile e dannosa», è stata la scultorea risposta. Il giorno stesso l'Impregilo, capofila delle società costruttrici, perse cinque punti in Borsa. Bianchi capì che aveva imboccato la strada giusta per notificare la sua esistenza e, a ruota, disse che l'Alitalia era destinata a perire. Il titolo della compagnia franò di dieci punti. Euforico, ci riprovò con le Ferrovie, dicendo che erano motriglia. Ma poiché la società non è quotata, non successe nulla. Allora ha cacciato la dirigenza.
Data prova del suo acume economico, il ministro ha voluto mostrare il suo impegno politico. Dispiaciuto per la malattia di Fidel Castro, ha rievocato il proprio pellegrinaggio all'Avana. «Ascoltare per ore il discorso del primo maggio di Fidel, nella Piazza Grande, mi ha dato emozioni forti. Ammiro molto quello che ha fatto...», ha detto commosso. Siccome non stava bene che un ministro esaltasse una dittatura, divampò una polemica. Il leghista Calderoli lo invitò a «cambiare nome da Bianchi in Rossi e andare a fare il ministro a Cuba» e Prodi bofonchiò: «Bianchi, stai buono».
Ma il vespaio era molto al disotto delle sue attese. Allora ne studiò un'altra e esternò di nuovo: «Non capisco perché siamo andati a fare la guerra in Irak». Ma come, siamo lì per aiutare e tu parli di guerra?, fu la reazione diffusa. L'Udc Giovanardi, emilianamente eccessivo, disse invece: «Bianchi è un intollerabile bugiardo». Prodi ridisse: «Bianchi, stai buono» e lo ripeté nove volte, segno che gli stavano saltando i nervi.
Alex captò il segnale e tornò a occuparsi del ministero che aveva lasciato a bocca aperta il giorno del suo ingresso. Si chiuse nello studio, ma non prima di averci fatto entrare un giornalista, e fece all'ospite questa confidenza: «Abbasserò da 130 a 120 il limite di velocità sulle autostrade, come nei grandi Paesi Ue». Al cronista mancò la prontezza di ribattere che 82 milioni di tedeschi possono andare alla velocità che gli pare e che metà dei Paesi Ue hanno i 130. La sortita ebbe comunque l'effetto desiderato e il ministro campeggiò sui quotidiani per alcuni giorni. Con questo, ho riassunto ciò che ha fatto Alex da quando, quattro mesi e mezzo fa, abbiamo saputo che al mondo c'era anche lui.
Ministro dei Comunisti italiani, Bianchi è in realtà estraneo al partito di Diliberto. Si è unito al Pdci per un doloroso ripiego. Fino a pochi giorni prima del voto doveva essere candidato dei Ds a Reggio Calabria. Marco Minniti, proconsole di D'Alema per l'Aspromonte, gli aveva promesso mari e monti. Poi gli ha preferito Rosa Maria Villecco Calipari, vedova dell'ufficiale ucciso a Bagdad, dotata di maggiore appeal elettorale. Il rettore mollato si vide costretto a un fulmineo accordo col collega cattedratico Diliberto. Il Pdci lo fece testa di lista reggino per il Senato.
Alex ha fatto una campagna incentrata sul suo ego: cartelloni da divo hollywoodiano su cui spiccavano i capelli vaporosi e il resto del bianco; diuturni interventi al «Salotto dell'editore», il «Porta a porta» di Rtv, l'emittente del Berlusconi locale, Eduardo Lamberti Castronovo; zero programmi, tanta faccia, continui autoincensamenti. Conclusione: trombato. Un trauma per uno dei personaggi più in vista della città, temperato dalla certezza che fosse Reggio a non meritarlo. Poi è arrivata la poltrona di ministro. Il rettore la attribuisce interamente alle proprie virtù, non ai buoni uffici di Diliberto verso il quale ostenta la massima autonomia. Con cipiglio ha detto: «Sono espresso dal partito di Diliberto, ma come indipendente. Per ora va bene. Ma a tutto potrei rinunciare tranne che a me stesso».
Questo bel tipo di hidalgo è nato a Roma, ma ha vissuto qui e là seguendo il babbo pilota di caccia. Infanzia in Sardegna nell'idroscalo di Elmas, adolescenza a Frosinone dove il genitore, passato agli elicotteri, si era trasferito. Alex riapprodò a Roma per frequentare Ingegneria civile e laurearsi nel 1970. Capì però che non aveva la vocazione dell'ingegnere ma piuttosto dell'architetto e, più precisamente, dell'urbanista. È dotato infatti di spiccato senso estetico, come prova la sapiente sistemazione del suo complesso tricologico, capelli, barba, baffi. Fece quindi il salto nella facoltà di Architettura di Roma e intraprese la carriera accademica. Contemporaneamente, teneva d'occhio Reggio Calabria. Qui, nei primi anni '70 accadevano cose del massimo interesse. Per gemmazione dall'Università di Messina stava sorgendo un Ateneo autonomo.
Bianchi ebbe fin dall'inizio le mani in pasta nell'erigenda università e quando nacque ufficialmente nel '77 era già un volto noto. Intanto, proseguiva il suo cursus a Roma dove, dall'87 al '94, fu professore associato di pianificazione territoriale. Nel '95, Alex si lasciò definitivamente attrarre dalla giovane Università di Reggio assumendo la cattedra di Urbanistica nella città dello Stretto. Quattro anni dopo, era rettore. Il terzo nella storia dell'Ateneo reggino, dopo Antonio Quistelli e Rosario Pietropaolo. Il fulmineo avanzamento si spiega con le enormi occasioni che offrono le università ai primi passi.
Per un paio di lustri ha fatto la spola tra Roma e Reggio. Alex, infatti, non ha mai lasciato il domicilio nella Capitale. Qui abita con la moglie, Patrizia, e il figlio, Francesco, un ventunenne fenomeno che studia filologia classica alla Normale e ha già scritto un saggio di greco. Il babbo glielo ha fatto pubblicare dalla Iiriti, l'editore di fiducia dell'Ateneo reggino.
Nella città dello Stretto, Bianchi si è trovato da dio. Il suo rettorato ha dato un impulso, soprattutto di immagine, all'Università. Per sua iniziativa è stata aggiunta al nome, la specificazione «Mediterranea» che ne indica la vocazione. Ha intrecciato rapporti con omologhe istituzioni greche, tunisine, algerine, ecc. Ha arricchito le facoltà di nuovi professori, tra cui il capo del Sismi, Nicolò Pollari, che dal 2001 ha la cattedra di Diritto tributario. Ha costruito un sito Internet su se stesso che è uno spettacolo. Trentotto foto in cui appare: in ermellino, seduto, in piedi, di barba, di baffo, pensoso. La migliore lo mostra addossato con aria titanica a un muro che pare sorregga più che appoggiarcisi.
Finché è stato rettore (ora non lo è più per incompatibilità con la carica di ministro) usufruiva dello splendido studio nella palazzina liberty di Via Zecca. Sulla parete la riproduzione della «La chatte et la Méditerranée» di Balthus. Alex, uomo coltissimo, è un fan dell'artista francese e in particolare di quest'opera che ha fatto riprodurre anche sul suo biglietto da visita. Dalla finestra sul Lungomare, come dal ristorante di Cannitello il suo preferito per l'ottimo pesce, godeva del panorama sullo Stretto con la Sicilia di fronte.
È l'amore per questa vista che gli fa odiare la prospettiva del ponte. Considera il manufatto un oltraggio alla bellezza dei luoghi e l'idea di un cantiere aperto per anni, peggio di una bestemmia. Il suo no all'opera è un puntiglio estetico, più che una valutazione politica o economica. Alex è un dandy, uno spirito elitario, un nobile antico. Fa il baciamano alle signore, usa il voi e ti dà la mano con tale sussiego episcopale che non sai se è per stringerla o farsela baciare.
Nei giorni scorsi, c'è stato il primo round per la successione a Bianchi nel rettorato. Alex, che vuole tenere saldo il suo potere nell'Ateneo, appoggia un caro amico, Massimo Giovannini, preside di Architettura. Gli si contrappone l'ex rettore, Pietropaolo che detesta Bianchi. Ignoro cosa differenzi i due candidati. Fatto sta che dopo tre votazioni a vuoto, Pietropaolo ha vinto il ballottaggio. Di fronte alla sconfitta, Bianchi non ha fatto una piega. È rimasto al ministero a mettere a punto i 120 all'ora.

È intervenuto però graziosamente un suo collega di governo, il ds Fabio Mussi. Il ministro per l'Università ha annullato la vittoria del nemico di Bianchi e rimesso in corsa l'amico. Forza della politica.
Ora è chiaro a tutti che Alex da Roma conta a Reggio più di prima.

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