L’unico particolare diverso rispetto ai precedenti incontri è il colletto bianco del cleryman allentato. Un’inezia, che però tradisce la fatica di queste ore: Gianfranco Ravasi, il neo «ministro della Cultura» della Santa Sede, nonostante i centocinquanta libri pubblicati e l’imponente attività di conferenziere, ieri sembrava quasi soccombere sotto la pioggia di richieste di interviste. Il famoso biblista, nominato arcivescovo, lascia la Biblioteca Ambrosiana e Milano per raccogliere l’eredità del cardinale Paul Poupard. «Mi costa lasciare questa città e questa Biblioteca», sussurra.
Parliamo del Ravasi «privato». Come nasce la sua vocazione?
«Credo di poterla far risalire all’età di quattro anni. Abitavo in Brianza. Ero con mio nonno, e mentre ammiravo il tramonto ho sentito il fischio di un treno a vapore che sferragliava nella valle. È stata un’esperienza malinconica, che mi ha fatto percepire il senso della fragilità dell’essere. Una sensazione di paura: a partire da quel momento sono stato spinto a cercare la risposta nel Trascendente, nel divino. E l’ho trovata».
Quali sono stati i suoi autori di riferimento?
«Sono partito dalle Scritture, da Cohelet e Giobbe, per arrivare ad Agostino, Pascal, Dostojevsky e Kierkegaard. Ho sempre avuto la percezione che il cristianesimo, oltre al suo dato teologico, sia anche uno straordinario “sistema” culturale e rappresenti la possibilità di un orizzonte di risposta alle domande ultime anche per coloro che non professano la nostra fede».
Quale rapporto deve esistere tra fede e cultura?
«Purtroppo oggi ci troviamo di fronte a una certa cultura laica che analizza il fenomeno cristiano con la categoria dello sberleffo. Non ci si confronta più, viviamo in una specie di deserto. Il cristianesimo ha sempre bisogno di essere inculturato, di essere espressivo, di comunicarsi. E anche di confrontarsi con la cultura contemporanea, senza timori o subalternità. Il pensiero cristiano è straordinario: basta citare il concetto di persona e di libertà e paragonarlo al concetto di uomo di altre culture e religioni per rendersene conto».
Ritiene questo il suo compito?
«Sì. Vorrei che, pur con tutto lo stile necessario per i testi di un dicastero vaticano, si cercasse di farsi capire di più. Mi piacerebbe anche utilizzare maggiormente l’informatica, così come ho fatto qui all’Ambrosiana, per favorire il confronto attraverso strumenti quali i blog e i forum. La cultura è dialogo, ascolto, capacità di entrare in sintonia».
Il Papa insiste molto sulla bellezza come via per la verità.
«Ho avuto la fortuna di vivere qui, circondato da opere d’arte. L’occhio dell’uomo deve essere purificato perché è deturpato da troppe immagini di brutture e di bruttezze. Comprese certe nuove chiese. Compresa una certa trasandatezza nella liturgia, purtroppo. Un bambino del Trecento andava in piazza dei Miracoli a Siena e vedeva delle bellezze. Oggi un ragazzo dei quartieri periferici delle nostre città finisce per essere così rassegnato al brutto che quando vede un monumento lo sfregia».
Sul rapporto scienza-fede quali sono i suoi programmi?
«È importantissimo, tanto più oggi che la scienza viene talvolta presentata come in opposizione alla fede. Mi piacerebbe creare un ufficio apposito nel Pontificio consiglio per la cultura dedicato proprio allo studio e all’approfondimento delle grandi sfide della scienza».
Da quanto tempo conosce Joseph Ratzinger?
«La prima volta l’ho ascoltato a una conferenza che ha fatto a Roma, alla Domus Mariae, all’epoca del Concilio. Poi per dieci anni, a partire dal 1985, sono stato membro della Commissione teologica internazionale e ho avuto molte occasioni di dialogo, di scambio: devo dire che l’immagine di uomo chiuso e rigido che in passato gli era stata cucita addosso non è mai corrisposta a verità. Quando nel 2002 venne a Milano in occasione dell’uscita del suo libro sulla liturgia volle che fossi io a presentarlo. Ho sempre notato il suo interesse per gli effetti delle Sacre Scritture nella cultura».
Qualcuno l’ha criticata per aver affermato sul Sole 24Ore che Gesù «non è risorto, si è innalzato».
«Quello era il titolo, che non ho deciso io e che non riassumeva bene il testo. Lì spiegavo che la resurrezione di Cristo non è stata la semplice rianimazione di un cadavere, ma qualcosa di più grande. Oltre al risorgere del corpo c’è stata la glorificazione, l’esaltazione, l’innalzamento: termini usati dall’evangelista Giovanni e da san Paolo per descrivere quel mistero diventato lo snodo centrale della storia umana».
Lei è un famoso biblista: i Vangeli sono storici oppure no?
«La storicità dei Vangeli non può essere ricondotta soltanto alla vecchia concezione di storicità documentabile, perché se applicassimo solo questo criterio butteremmo a mare buona parte della storia antica. Grazie all’impostazione storiografica attuale possiamo avvalerci del contributo di una infinità di altre scienze umane, dall’antropologia all’etnologia, dalla psicologia allo studio delle abitudini quotidiane.
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