Il fine della pena è sempre rieducare

Non mi pare il caso di mettere in dubbio un principio costituzionale e un sistema per via di quello che è successo a Milano, quantunque sia drammatico e sconvolgente

Il fine della pena è sempre rieducare
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Gentile Direttore Feltri,
quello che è accaduto a Milano, dove un detenuto a cui era consentito di lasciare il carcere per lavorare ha tentato di uccidere un collega e ha ammazzato una donna prima di suicidarsi, dovrebbe indurci a rivedere le misure alternative alla detenzione e la prassi dei permessi che può generare tragedie di questo tipo. Lei cosa ne pensa? Se questo signore fosse rimasto in cella non avrebbe ucciso ancora. Su questo non ci piove. O no?

Teresa Bianchi

Cara Teresa,
non mi stancherò mai di ripetere un concetto di cui pure dovrebbero essere tutti consapevoli: la funzione e il fine della pena detentiva e quindi del carcere non sono punitivi, ma rieducativi. E la rieducazione, finalizzata a sua volta al reinserimento del reo nel tessuto sociale, una volta che questi ha saldato il suo debito con la giustizia e con la società, sia bene inteso, si realizza mediante il lavoro, non di sicuro mediante l'ozio, padre di tutti i vizi. Dunque non mi pare il caso di mettere in dubbio un principio costituzionale e un sistema per via di quello che è successo a Milano, quantunque sia drammatico e sconvolgente: un detenuto, ristretto nel carcere di Bollate, il quale lavorava in un albergo a due passi dalla stazione Centrale, ha sferrato ben cinque coltellate al collega, vivo per miracolo, e ha ucciso una donna, sempre una sua collega, prima, come tu ben dici, di togliersi la vita gettandosi da una guglia del Duomo di Milano, in un orario e in un giorno, domenica, in cui il viavai in quell'area è più intenso che mai, con il pericolo concreto, insomma, di finire addosso a qualche passante, magari un bambino o una donna incinta, stroncandolo. Va da sé che i fatti sono gravissimi e impongono una riflessione allo scopo di comprendere cosa non abbia funzionato e di rimediare ad uno sbaglio o ad una lacuna affinché mai più si verifichi qualcosa di similare. Non si tratta di una operazione complicata. Proviamoci. Quest'uomo era stato condannato per il reato di omicidio, quindi non per il furto delle caramelle al supermercato. E la condanna era piuttosto recente, risalendo a pochi anni fa, circa sette. Ecco, già questa trovo che sia una anomalia. L'omicidio non è un crimine minore. Ed egli aveva ammazzato una donna, che svolgeva l'attività di escort. Penso che gli elementi per ritenere questo individuo pericoloso ricorressero tutti. E credo che sia stata una leggerezza consentirgli, dopo solo qualche anno di galera, di uscire di prigione senza una indagine approfondita sul suo stato mentale, che, qualora fosse stata realizzata, avrebbe senza dubbio rivelato la presenza della propensione all'omicidio, l'assenza del pentimento, della acquisizione della consapevolezza di ciò di cui egli si era macchiato. Non sono i politici né i direttori degli istituti di pena a stabilire chi possa e in quale modalità svolgere attività esterna. Sono i tribunali. Ed è evidente che qui sussistono delle responsabilità, che nessuno tuttavia si assumerà. Stanne certa.

Le misure alternative alla detenzione e il lavoro sia in carcere che fuori dal carcere sono capisaldi del nostro ordinamento. Ma devono essere bilanciati con altre esigenze, prima tra tutte quella di garantire la sicurezza collettiva e dei singoli. Mi fa specie che a un omicida, il quale ha assassinato una donna in un albergo qualche anno prima, venga affidato l'impiego proprio all'interno di un hotel, che non sia sorvegliato, che non si vigili sul suo stato psichico, sulle sue frequentazioni, su cosa diavolo combini nelle ore di libertà. In questi casi, sarebbe da preferire il lavoro all'interno della struttura detentiva nonché un esame più scrupoloso della salute mentale del soggetto.

In nessun modo e in nessun caso, tuttavia, lo sottolineo ancora, possiamo immaginare di sopprimere certe misure, verrebbero lesi i diritti e le libertà di altri ristretti, i quali, e sono tanti, ogni dì lavorano fuori dal carcere e ogni sera rientrano nella loro cella senza fare del male ad una mosca, cogliendo e sfruttando al meglio l'opportunità che è stata

loro concessa di ricostruire la propria esistenza, nonostante gli errori compiuti, affrancandosi per sempre da una passata scelta criminale e da ciò che furono. Scadere nel pregiudizio sarebbe un altro fallimento collettivo.

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