Birmania, la censura si abbatte sulla protesta dei monaci buddisti

Tagliati i collegamenti internet, interrotte le linee telefoniche: dalle strade e dalle piazze non arrivano più immagini della repressione. Arrestati e deportati centinaia di monaci. Dissidi nei vertici militari e ammutinamenti fra le truppe. Guarda il video. Bush e Brown: isolare i generali. Putin: no a sanzioni

Birmania, la censura si abbatte 
sulla protesta dei monaci buddisti

Soldati da una parte, tappeti di sandali e ciabatte dall'altra. È quel che resta della protesta dopo gli spari di giovedì, dopo le nuove vittime cadute, secondo fonti diplomatiche, nel corso di isolati scontri durante tutto il pomeriggio di ieri. Le manifestazioni perdono però tono e volume. Gli oppositori a dir il vero ci provano. Arrivano a gruppetti, si avvicinano guardinghi ai soldati. Cento, duecento, poi cinquecento, i coraggiosi stavolta non sono di più. Qualche carica, qualche sparo e il corteo svanisce. Continuano solo i caroselli, il gatto al topo audace ed estenuante di qualche giovane spavaldo incurante della caccia spietata. «Al diavolo i soldati, vogliamo la libertà», gridano mentre i proiettili inseguono, mentre i gendarmi circondano e setacciano gli ospedali alla ricerca di feriti. Ma non ci sono più i monaci, non ci sono le folle, non c'è l'audace sprezzante voglia di protesta dei giorni scorsi. C'è invece la preoccupazione, la paura per quanto s'agita sotto l'immenso iceberg della repressione. Quanti sono i morti? Dove sono? Chi sono? Le fonti ufficiali continuano a ribadire la cifra dei nove caduti di giovedì, ma per i diplomatici sono molti di più. L'ambasciatore australiano Bob Davis cita le testimonianze raccolte all'ambasciata, assicura che il numero dei cadaveri raccolti nelle strade «è significativamente più alto di quello dei cadaveri rimossi dalle scene delle dimostrazioni».
Altre uccisioni, altre esecuzioni sommarie si sarebbero verificate durante gli spietati rastrellamenti di mercoledì notte quando l'esercito e le forze di polizia hanno fatto irruzione nei principali templi della città arrestando almeno ottocento monaci. Senza contare irruzioni ed esecuzioni sommarie nelle case dei dissidenti. Per questi desparecidos, per questi morti senza nome e senza pubblicità la giunta militare birmana ha già dettato le regole imponendo alle famiglie terrorizzate di riconoscere la morte per malattia dei loro cari. «Le famiglie che hanno subito perdite - racconta una voce del dissenso da Rangoon - vengono minacciate dai militari, portate in caserma, costrette a convalidare un certificato di decesso per cause naturali».
Ma anche le indiscrezioni si fanno sempre più rade. Il moloch birmano, dopo aver fatto piazza pulita dei dimostranti, punta a togliergli il fiato. I collegamenti internet sono stati tagliati giovedì notte, quelli telefonici si fanno sempre sempre più incerti. Dalle piazze e dalle strade birmane non arrivano più immagini. Si sa di una sfilata di giovani dimostranti in moto a Mandalay, si sa di lunghe raffiche di mitra sparate contro di loro, girano notizie di volontari scesi in strada per difendere le pagode dei monaci, ma non esistono più bilanci e rapporti precisi.
Il timore è quello di un secondo e più devastante round repressivo. Per i più pessimisti scatterà non appena il regime avrà fatto fatta piazza pulita dei giornalisti stranieri infiltratisi a Rangoon e avrà spento i residui collegamenti telefonici e satellitari con il mondo. Solo allora, dicono queste voci, scatterà la vera repressione e sarà spietata come quella dell'88 quando l'esercito chiuse le strade e aprì il fuoco abbattendo 3.000 oppositori e arrestando i sopravvissuti. Ma il regime potrebbe anche accontentarsi del risultato raggiunto. Così sembra suggerirgli il grande protettore cinese, preoccupato, in vista della kermesse olimpica, delle accuse di collusione politica ed economica con una giunta di sanguinari.
A rendere difficili mosse estreme contribuisce l'arrivo dell'inviato delle Nazioni Unite Ibrahim Gambari atteso già quest'oggi. Questi calcoli non fanno i conti con i rischi di eventuali cedimenti interni. Le prime crepe si sarebbero già aperte ai livelli più alti della gerarchia militare. Il numero due della giunta generale Maung Aye, appoggiato da altri pari grado, si starebbe opponendo alla linea dura decisa dal 73enne numero uno Than Shwe. A questi dissidi - secondo quanto riportato da Mizzima, un'agenzia di stampa controllata dai dissidenti all'estero - si aggiungerebbero gli ammutinamenti di alcune unità della 33ª e della 99ª divisione.

Altre truppe starebbero marciando verso Rangoon dopo aver abbandonato i loro accampamenti nelle regioni sud orientali al confine thailandese. Potrebbero esser state mandate a rafforzare la repressione, ma potrebbero anche esser guidate da ufficiali dissidenti decisi a fermare con le armi le truppe intervenute contro i dimostranti.

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