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Bologna sfida la maledizione con i tiri ignoranti di Basile

La Fortitudo vuol cancellare quattro finali perse di fila

Le spalle sono grandi, belle forti, ma le giacche e i pesi che porta questo Gianluca Basile, capitano delle aquile fortitudine, sembrano sempre più grandi di lui. L’ironia di chi ha spiazzato tanta gente inventandosi la definizione dei tiri ignoranti, dei colpi vincenti che, secondo lui, vanno dentro, come nella partita decisiva della semifinale a Roma dopo tanti errori, soltanto se hai «culo» ha detto all’esterrefatto cronista che verniciava d’oro la prodezza. Basile il capitano alla caccia del secondo scudetto Fortitudo e anche suo, capo tribù e bersaglio, uomo a cui chiedere tutto perché lo sfideranno in tanti da questa sera a Bologna: McCullough per fargli capire che essere registi costa, Calabria per fargli intendere che la difesa porta via energie esagerate, magari Coldebella per ricordargli cosa vuol dire essere ruvidi o Mario Gigena se proprio dovesse scappare agli altri e poi Singleton che lo aspetterà al centro dell’area. Vita splendida per chi ha la stoffa del protagonista, per chi vorrebbe sdraiarsi a dormire in un campo di papaveri e sa invece che per i 40 meritatissimi giorni di riposo non ci sarà tregua in questa serie almeno per tre, se non per cinque partite.
Quando prendeva respiro, ai tempi di Tanjevic e della nazionale campione d’Europa, il Boscia gli urlava che la vita del contadino era più dura. Non se lo è mai dimenticato, né sembra dispiacergli il profumo di una buona cipolla. Lui non sarà mai un faraone, ma sicuramente è il Gianluca Meridio generale per legioni abituate a vivere insieme.
Basile è un tipo che balbetta quando pensa quello che deve dire e fare, ma poi parte e se gli vai dietro avrai fortuna. Bello come Giasone, nato per vincere e le medaglie importanti non gli mancano, anche se ha perso abbastanza per sentirsi in debito. Nella saga Fortitudo è arrivato da Reggio Emilia sei stagioni fa quando non sapeva delle maledizioni iniziate già nel 1996, proprio contro Milano. Per lui c’era sole: oro a Parigi nell’Europeo, scudetto l’anno seguente, ma poi scoprì la montagna dei draghi, quattro finali perse consecutivamente, 12 sconfitte su 13 partite, dando un calcio alle altre 45 che aveva vinto per arrivare a giocarsi il massimo.
Lunedì sera, nell’aria fresca del Paladozza, diventato teatro per il gran premio della sponsorizzazione è andato sul palco a ritirare una coppa in cristallo, lui insieme a Mancinelli, che farebbe bene ad ispirarsi al Baso, il talentone che può essere decisivo nella corsa scudetto, ma quando Dan Peterson gli ha detto che deve ancora credere di poter andare un giorno nella Nba, anche se adesso ha trent’anni, lui è scappato via con il suo sorriso: «Non salto più, meglio pensare a questo di mondo e a questo scudetto».
Certo che ci pensa, prova a farlo capire a Bagaric, a Bellinelli, Lorbek, Cotani che ora comincia a capire, forse, la nuova dimensione, Ruben Douglas il suo compagno freccia, a Rancik che dovrà pur ricordare di aver detto all’inizio dell’anno che Bologna gli aveva ridato il gusto della vita nel basket che Milano si era presa.

Per farlo si fa aiutare da uno che ha vinto abbastanza per indicare la strada, Matiaz Smodis, il Nord e il Sud di una partita, di una sfida come questa.

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