Politica

La bomba di Latina Caccia ai reduci di Kosovo e Irak

Il Pm sta esaminando lo stato di servizio di chi è stato all’estero. Carabinieri «indignati»

Massimo Malpica

da Roma

Un lungo applauso accompagna il feretro di Alberto Andreoli nel suo viaggio verso il cimitero di Latina, tra le lacrime disperate della moglie Carla, il dolore del padre sorretto a braccia dal personale dell’ambulanza che l’ha accompagnato qui, il cordoglio delle autorità (c’era anche il ministro dell’Interno, Beppe Pisanu) e la rabbia dei colleghi. Sì, rabbia. Perché la «soluzione» della prima parte del giallo, condensata nel comunicato stampa con cui due sere fa la Procura pontina ha ipotizzato l’incidente, sembra indicare per certo il responsabile «in buona fede» della tragedia tra gli inquilini della caserma. Ma chi lavorava a fianco a fianco con Andreoli non la pensa così. Il ragazzo è stato dilaniato da una bomba a mano russa ad alto potenziale, questo è certo. Ma le convinzioni di magistrati e carabinieri divergono per il resto della ricostruzione. Secondo i primi l’ordigno sarebbe finito in quella stanza, e poi nelle mani dell’appuntato, perché portato a Latina come «souvenir» da qualche collega di Andreoli al ritorno da una missione militare all’estero, probabilmente in Kosovo. Per gli uomini della caserma Vittoriano Cimmarrusti, invece, più che una «tragica fatalità» si è trattato di «un’azione subdola», «un’ipotesi presa in considerazione anche dal nostro comandante generale, Luciano Gottardo, e che francamente ci convince di più», spiega al telefono un «portavoce» dei carabinieri di Latina, chiedendo di restare anonimo. Ma il procuratore aggiunto del capoluogo pontino Francesco Lazzaro e i sostituti Vincenzo Saveriano e Giancarlo Ciani restano di tutt’altro avviso. E, già da ieri, hanno cominciato a scorrere i curricula del personale della caserma, per cercare di individuare il «proprietario» della bomba. «Abbiamo avviato uno screening sui contingenti dei carabinieri che recentemente sono andati in missione all’estero», spiega Lazzaro: «Le nostre indagini - prosegue - si concentreranno più su chi ha fatto ritorno dal Kosovo che su chi è andato in missione in Irak, e questo proprio perché l’ordigno è risultato essere di fabbricazione russa e di provenienza slava, anche se in tempi recenti non mi risulta che nessuno della caserma di Latina sia tornato dal Kosovo».
Proprio il carabiniere «arrabbiato con una verità giudiziaria che non ci soddisfa», invece, conferma che «almeno cinque o sei di noi sono stati in missione lì, tra Pristina e Pec, e altri di noi hanno prestato servizio in Irak». Ma nella caserma di Latina nessuno crede alla «teoria del souvenir»: «Se fosse vera, saremmo i primi a voler stanare chi è tanto folle da tornarsene in ufficio con una bomba in valigia», insiste il militare, ricordando altri «due elementi da tenere in considerazione: Alberto non era uno sprovveduto, non avrebbe pasticciato con un potenziale ordigno. E gli ultimi rientri dal Kosovo risalgono a 3 mesi fa.

Perché la bomba sarebbe esplosa solo ora?».

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