Il borghese intransigente che agitava il Pd

Quando era piccolo che cosa avrebbe voluto fare da grande? «Il cardinale». Scrittore preferito? «Italo Calvino». Cantante della vita? «Frank Sinatra». Il ricordo più bello? «Quando sono nati i miei figli». Il più brutto? «L’invasione di Praga». Squadra del cuore? «Lo scriva a caratteri maiuscoli: INTER». Così rispondeva Riccardo Sarfatti alle domande del Giornale nell’aprile del 2005, alla vigilia dello scontro elettorale con Roberto Formigoni per la presidenza della Lombardia. Con i politici, qualche volta c’è da dubitare delle risposte date ai cronisti così a ridosso del voto. Ma Sarfatti era un personaggio sui generis, fiero ai limiti dell’antipatìa nell’esporre il proprio punto di vista e le sue parole sono un modo affidabile di ricostruirne il ritratto.
Quando la sinistra lo scelse per sfidare lo stravotato governatore lombardo, tutti lo considerarono naturalmente vocato alla sconfitta. Lui si lanciò nella battaglia con il piglio di chi pensa di potercela fare. Nato a Milano nel 1940 da una famiglia ebrea di imprenditori, architetto e professore universitario, nel 1978 aveva fondato Luceplan, azienda di lampade di design, la marca della Costanza, che pende sui tavoli di tanti soggiorni e cucine. Lascia la moglie Sandra, che amava e stimava («molto vicina al mio ideale di donna, bionda, occhi chiari, alta snella, anche disubbidiente a autonoma») e tre figli.
Il debutto in politica arriva con «Libertà e Giustizia», comitato radical-giustizialista: Sarfatti entra nel comitato di presidenza. È tra i fondatori dell’Ulivo lombardo e si lascia prelevare dal Pd di Romano Prodi come esponente della società civile da mettere in campo per non sfigurare nelle urne. Arriva dalla buona borghesia, ha ricoperto incarichi di prestigio in Confindustria, insegna al Politecnico di Milano e alla facoltà di Architettura di Venezia. Si butta e perde, ma con onore.
Al Pirellone iniziano i dolori, perché si fa un’idea della politica ancora peggiore di quella che aveva prima dell’esordio. «Quello che in realtà succede nei partiti e nelle istituzioni è condizionato da logiche specifiche che raramente ha direttamente a che fare con la soluzione dei veri problemi sociali: l’interesse collettivo» spiega ai suoi elettori nel 2010, per motivare la sua ricandidatura. L’intransigenza gli costa isolamento a sinistra, ma nonostante le delusioni lui continua per la sua strada, libero battitore e cane sciolto, capace di votare contro il partito ogni volta che lo ritenesse necessario, «alieno da ogni trasformismo, quasi incapace di compromesso», per dirla con le parole di compianto dell’amico Massimo Cacciari.
Negli ultimi tempi è stato tra i fondatori del Comitato dei 92 saggi democratici desiderosi di rivoltare il Pd e liberarlo dai «condizionamenti storici». Ha un po’ oscillato tra due possibili candidati a sindaco di Milano e alla fine ha preferito l’architetto Stefano Boeri al costituzionalista cattolico Valerio Onida, che pure faceva parte dei «saggi» del suo gruppo. In un certo senso ha votato contro se stesso. Probabilmente aveva sue ragioni di indecifrabile coerenza.


Anni fa, rispondendo alla poetessa Patrizia Valduga, aveva detto di sé: «Nella vita i momenti importanti di decisione non possono che essere accompagnati dalla riflessione e della meditazione. Se si è fatto questo, la coscienza è sostanzialmente tranquilla». Nel momento estremo, è qualcosa che conta.

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