Borse, stampa e quei miliardi bruciati

Una cattiva notizia fa più notizia di una buona. Trattasi di regola elementare, cui non si sottrae nemmeno il seppur spesso troppo compassato giornalismo economico-finanziario. Soprattutto se in ballo ci sono le Borse. L’iperbole funziona meglio quando gli indici cadono come birilli; altrettanto i toni retorici, con rievocazioni storiche da Waterloo a Caporetto. La crudezza dei numeri induce all’uso e all’abuso della metafora: tra picchiate senza fine, crolli rovinosi, avvitamenti degni di Cagnotto, si sfiora la tragedia shakespeariana. Si drammatizza, forse per umanizzare un luogo-non luogo come la Borsa, fatto di microchip e di fili invisibili capaci però di legare in un’unica comunità l’universo finanziario. E poi, nello slang giornalistico-borsistico, si brucia: quando i mercati vanno giù, si bruciano miliardi di euro, in una sorta di liposuzione che costa 100, 200, 300 o anche più miliardi. Ce lo ricordano titoli, occhielli e sommari. Mai una volta che ci prendiamo la briga di ricordare quanto le Borse hanno guadagnato in una giornata di vena del dio denaro. L’indice di riferimento europeo, il DJ Stoxx 600, funziona solo a senso unico: con la conta dei danni.

E allora, ecco l’altro calcolo, quello in direzione contraria: ieri il DJ ha guadagnato l’1,72%, la capitalizzazione è salita a 7.230 miliardi di euro e le Borse sono ingrassate di quasi 125 miliardi. Una pessima notizia.

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