Il buco nero della tv che finanziò l’Idv

Milano - «Continueremo a credere in questo progetto, e a fare informazione attraverso modalità avanzate. Su questa base valuteremo altri progetti di new media sfruttando le opportunità offerte dalle nuove tecnologia, dalla banda larga a Internet». Era il febbraio 2001. Raimondo Lagostena Bassi, tycoon lombardo delle emittenti locali e l’uomo che nel 2008 finanziò Antonio Di Pietro con 50mila euro, guardava all’orizzonte della sua creatura, acquisita attraverso il gruppo «Profit spa».

Dopo anni passati a cavallo tra scoop e bilanci tinti di rosso, l’editore confidava nel rilancio: «Sei Milano», il canale televisivo nato con l’ambizione di diventare una piccola Cnn, avrebbe fatto strada. Tempo dodici mesi, e quella strada si sarebbe interrotta. Anno 2002, e fine delle trasmissioni.

Nessun programma, e frequenze spartite con Mediaset e Telelombardia. Eppure «Sei Milano», che fa capo a Tiziana Grilli (moglie di Lagostena), sopravvive in uno stato larvale. Alla Camera di commercio risulta inattiva. Ha un solo dipendente. La sede è sempre in via Mambretti, a Milano, dove gli studi si sono trasferiti a metà degli anni Novanta. Insomma, una scatola vuota. A cosa serve una televisione privata dell’etere? Apparentemente a nulla. «Sei Milano», però, dà cenni di vita. Dopo sette anni. È il 2008, quando l’emittente stacca un assegno da 50mila euro che risulterà essere la maggior offerta spontanea all’Italia dei valori. Poco dopo, in occasione delle ultime elezioni europee, l’Idv userà spazi pubblicitari sulle reti di Lagostena per 200mila euro. Nulla che al momento appaia illegale. E niente su cui, almeno per ora, si sia soffermata la procura di Milano.

Perché nel frattempo, molte cose sono successe. Lagostena, al termine di un’inchiesta del Nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza, è finito in carcere per una storia di tangenti e favori all’ex assessore al Turismo lombardo, Pier Gianni Prosperini. E per quest’ultimo, a breve, i pm potrebbero chiedere il giudizio immediato. Possibile, però, che chiuso il primo filone di indagini se ne aprano altri.

Perché la storia di «Sei Tv», negli ultimi sette anni, appare come un grande buco nero. La fine ingloriosa di un’avventura editoriale nata all’insegna del’innovazione. E dei grandi investitori. Per trovarne le radici, bisogna risalire fino all’inizio degli anni ’80. Quando, da alcune frequenze in esubero di Telelombardia, nasce Telenorditalia. L’emittente verrà acquistata all’inizio degli anni ’90 dal gruppo Ligresti. Poi, nel 1995, subentra la cordata guidata da Luciano Benetton, che ne acquisisce la maggioranza attraverso la «21 investimenti», all’epoca uno dei principali operatori di private equity europei, di cui l’imprenditore veneto controlla il 59% tramite la finanziaria «Edizione holding». Il canale televisivo è un passo avanti sui tempi. E fa le cose in grande: 132 persone assunte, tra cui una settantina come videogiornalisti. Tecnologie d’avanguardia, ascolti di tutto rispetto (una media 230mila contatti al giorno nel ’97, secondo le stime dell’Auditel) e costi di gestioni altissimi. Non può durare. Nel giro di due anni, l’azienda sfiora il crac. Così, nel luglio del 1997, viene annunciata la messa in stato di cassa integrazione della maggior parte della redazione e del personale tecnico. È il fondo del baratro. Nell’ottobre di quello stesso anno, il canale di trasmissione viene oscurato. Ed è in quel momento che subentra l’uomo della provvidenza. Raimondo Lagostena Bassi.

La sua «Profit», specializzata in produzione e realizzazione di contenuti per la televisione e già proprietaria di Odeon Tv e Telereporter, rileva il controllo dell’emittente milanese.

Il tentativo di rilancio, però, non va a buon fine. Nel 2002, infatti, gli studi di «Sei Milano» vengono unificati a quelli di Telereporter, e il segnale si spegne. Niente più contenuti. Il contenitore, invece, sopravvive. Per anni. Senza un motivo apparente.

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