Bush chiede libertà alla Cina e fa la guerra ai Democratici

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Bush rinsalda i legami col Giappone, affronta il malumore della Corea del Sud, lancia un primo messaggio «misto» alla Cina. E non dimentica di coprirsi le spalle dalla «fronda» in America. È una missione complicata quella del presidente in Asia: quattro Paesi di cui uno solo, la Mongolia, non presenta problemi. Bush ha cominciato dall’interlocutore più facile e ha incassato un buon risultato. Il suo incontro con Junichiro Koizumi nella cornice storica di Kyoto è stato molto cordiale, ripagando in parte l’uomo della Casa Bianca dalle critiche e anche dagli insulti raccolti durante il suo recente periplo sudamericano. Koizumi è particolarmente di buonumore di questi tempi dopo aver vinto una essenziale e difficile scommessa elettorale. Nei sondaggi egli è al polo opposto a quello di Bush: ai massimi. La sua agenda di riforme non comprende soltanto l’economia interna, ma anche una radicale revisione della politica estera giapponese, in pratica con la rinuncia al disarmo e al pacifismo, che è stata la «religione» di Tokio dalla Seconda guerra mondiale in poi, come imposto inizialmente dall’occupante americano e poi fervidamente abbracciato dalla maggioranza dei cittadini. Adesso il partito di governo ha preparato una revisione della Costituzione, che elimina l’impegno al disarmo e addirittura sostituisce come titolo di un importante capitolo l’espressione «Rinuncia alla guerra» con «Sicurezza nazionale». In più un accordo con l’America prevede il ritiro di metà dei marines che si trovano in Giappone, e contemporaneamente l’assunzione da parte giapponese di un ruolo maggiore nella difesa comune, secondo un modello che si ispira apertamente alla «relazione speciale» fra Stati Uniti e Gran Bretagna. Tutti sviluppi incoraggianti per l’America (che li invoca da decenni), anche se il «nuovo spirito» in Giappone include, come è logico, una rivalutazione del passato, anche degli anni della Seconda guerra mondiale e immediatamente precedenti e dunque un’attenuazione del «rimorso» per gli avvenimenti dell’era imperiale. Questa svolta non riguarda naturalmente solo i rapporti fra Washington e Tokio; è anzi in gran parte la conseguenza delle accresciute tensioni nell’Asia nordorientale (a lungo un «angolo» tranquillo del pianeta) a causa della crescita impetuosa della Cina e in particolare del suo aspetto militare. Riarma un potente vicino con cui le relazioni sono state spesso difficili e riarmano anche i giapponesi, si altera rapidamente anche il rapporto di forza economico fra Tokio e Pechino. Quando George Bush padre visitò il Giappone da presidente nel 1990, la massima preoccupazione dell’America era la concorrenza commerciale nipponica. Bush figlio non vi ha neppure accennato e sullo sfondo c’è invece quella cinese.
E qui è entrato in gioco il secondo obiettivo del viaggio presidenziale: un «messaggio» a Pechino in cui si mescolano il riconoscimento, l’incoraggiamento e il monito. Bush ha riconosciuto i grandi progressi della Cina, ma ha anche invitato il regime ad aprirsi di più alle riforme democratiche: «Noi incoraggiamo la Cina a continuare sulla strada intrapresa, anche perché, riconoscendo le legittime richieste dei suoi cittadini di maggiore libertà e apertura, i suoi leader aiuteranno il loro Paese a diventare più prospero e più fiducioso. Nel trasformare la sua economia, i governanti cinesi troveranno che, una volta aperta, la porta alla libertà non si può più chiudere». La visita di Bush a Pechino contiene dunque elementi essenziali.
La tappa più difficile per lui è l’attuale, nella Corea del Sud. Alleata e cliente, Seul è passata sul fronte dei critici da quando è diventato urgente il rapporto con l’«altra» Corea. I programmi nucleari di Pyongyang inducono gli Stati Uniti (e il Giappone) a una politica di scontro, mentre la Corea del Sud ha scelto il dialogo, come Bush ha potuto constatare appena messo piede a Busan, sede di un forum economico. Il presidente Usa ha trovato nel primo ministro sudcoreano un interlocutore ben diverso da Koizumi. I colloqui, anzi, lo hanno in parte riportato ai problemi che rendono l’attuale momento il più difficile e ingrato della sua carriera. L’opposizione alla guerra in Irak cresce in America e Bush è sulla difensiva.

Anche se martedì egli è riuscito a contenere il primo attacco diretto dei democratici in Congresso, che gli chiedevano di fissare una data per il ritiro delle truppe da Bagdad e dintorni. La maggioranza repubblicana è riuscita a far passare una formula di compromesso che chiede a Bush di elaborare una «strategia per una conclusione della missione in Irak», ma senza dargli delle scadenze.

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