Bush: finché sarò al comando resteremo in Irak

«Ridurremo la nostra presenza solo quando le truppe irachene saranno autonome»

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Se ha in mente delle novità, non le ha dette. L’ennesimo discorso di George Bush a una platea di militari si può riassumere infatti, almeno in superficie, con una riaffermazione ancora più energica del solito di una totale continuità di rotta in Irak, non scalfita dalle delusioni né dalle critiche, né dagli esiti da tempo negativi dei sondaggi: «Finché io sarò il vostro comandante in capo - ha detto il presidente ai cadetti dell’Accademia militare di Annapolis - l’America non scapperà di fronte ai terroristi». Le richieste che si moltiplicano non solo in Congresso e nell’opinione pubblica americana ma anche fra i governanti di Bagdad di un «calendario» per il ritiro delle truppe Usa viene definito di nuovo «un grave errore, perché fissare una scadenza equivarrebbe ad inviare un messaggio al mondo intero e un altro al nemico. Al mondo l’America direbbe di essere debole, al nemico di essere pronta a tagliare la corda precipitosamente e abbandonare i suoi amici in Irak». Il tono di Bush nei confronti dei critici si è momentaneamente ammorbidito. Vengono lasciate cadere (ma questo già da diversi giorni) le accuse agli oppositori della guerra paragonati a dei «traditori». Dopo una significativa correzione lessicale del vicepresidente Cheney, Bush ribadisce oggi che «coloro che propongono il ritiro sbagliano perché sono sinceramente convinti che ciò sia necessario. Sbagliano perché il livello della presenza militare Usa non dipenderà dagli umori congressuali né dalla lettura dei sondaggi (e neppure, implicitamente, dai consigli dei Paesi amici ed alleati) bensì unicamente dal giudizio dei comandanti militari in loco. Il livello della nostra presenza militare sarà stabilito su questa base e non su quella di tabelle di retromarcia artificiose stabilite da dei politici di Washington. Potremo diminuire il livello delle nostre truppe a mano a mano che le forze armate irachene saranno in grado di difendersi da sole», ciò che potrà accadere anche fra breve tempo, al contrario di quello che si è verificato fino a ieri. Bush si è mostrato su questo piano relativamente ottimista, anche se egli si è guardato finora dal diminuire la presenza militare. In questo momento ci sono 157mila soldati americani in Irak e dovrebbero scendere a 138mila dopo l’emergenza aggiuntiva causata dalle imminenti elezioni; ma si tratterebbe sempre di un livello superiore a quello standard, che è di 130mila circa e a partire dal quale gli avversari politici di Bush chiedono si cominci a «tagliare» via la prima tranche di 30mila uomini. Anche qualche generale al Pentagono ha giocato di recente con l’idea di fissare l’estate prossima il nuovo livello a 100mila. Bush ha detto di no ancora una volta a queste prospettive, egli ha ricordato che «non sarebbe realistico pretendere che il nuovo Irak, in meno di tre anni dopo l’abbattimento di Saddam Hussein da parte delle truppe americane, diventi una democrazia pienamente funzionante». «Noi potremmo diminuire sostanzialmente il livello della nostra presenza solo a mano a mano che le truppe irachene avranno acquisito esperienza e piena capacità autonoma di respingere gli attacchi dei terroristi».
Bush è stato vago anche sulla forma finale che dovranno prendere le istituzioni democratiche in Irak. Né dati molto più precisi si possono desumere dal documento pubblicato ieri sotto il titolo «Strategia nazionale per la vittoria in Irak» e che riassume i nuovi compiti delle Forze Armate americane: dallo «sconfiggere i terroristi e neutralizzare l’insurrezione alla transizione del Paese alla piena sovranità pur rimanendo nell’alleanza, agli aiuti ai partiti democratici iracheni, all’ausilio per i governanti di Bagdad nella costruzione di una economia di governo nel rispetto delle leggi e dei diritti civili, ad iniziative per il recupero della «comprensione» della politica americana in Irak da parte dell’opinione pubblica straniera, in modo da rendere pensabile un totale isolamento pubblico degli insorti, anche nel Medio Oriente».


Nessuna menzione specifica di alcuni dei progetti che stanno affiorando nei dibatti interni all’amministrazione e che variano dallo stabilimento di una base aerea permanente in zone desertiche del Paese per consentire all’America di avere una mano pronta per reazioni militari immediate in quella parte del mondo, al ritiro di una parte delle guarnigioni Usa dall’Irak al vicino Kuwait, alla tacita autorizzazione di Washington al riarmo delle «milizie di partito», considerate una delle piaghe del Terzo mondo e di cui l’America ha costantemente chiesto, in tanti Paesi stranieri, la proibizione. Una soluzione da tempo allo studio al Pentagono ma che incontra forti resistenze al Dipartimento di Stato perché contraddice uno dei cardini della politica estera americana.

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