Bush in Pakistan accolto da scioperi e proteste

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

La parte più importante, e più simpatica, del periplo di George Bush nell’Asia meridionale è finita nel momento in cui il presidente ha varcato la frontiera indopakistana. È entrato, cioè, in un Paese che conosce anche troppo e che è stato ed è al centro di eventi drammatici, sviluppi complessi e anche di qualche grosso enigma della «guerra al terrore», dei suoi prodromi, delle sue conseguenze e dei suoi non chiari sviluppi. Il presidente americano è stato accolto da uno sciopero generale nazionale proclamato dai partiti islamici e da massicce dimostrazioni di protesta.
Per motivi di sicurezza, l’AirForce One di Bush è sceso a luci spente e con i finestrini oscurati sulla pista della Chakala Air Base di Rawalpindi. «Ci hanno chiesto di oscurare i finestrini - ha raccontato una giornalista -. Siamo scesi con attenzione al buio, lungo le scale all’interno dell’AirForce One, e siamo emersi in cima alla scaletta esterna per trovarci davanti a una legione di media locali... Evidentemente, l’arrivo del presidente non era poi così segreto». Le misure di sicurezza eccezionali sono proseguite durante il trasporto dall’aeroporto all’ambasciata degli Stati Uniti, «pesantemente fortificata», dove Bush alloggia.
Bush, che oggi verrà ricevuto dal presidente Pervez Musharraf, ha preannunciato nel suo discorso di commiato dall’India che chiederà al governo di Islamabad di fermare le sortite di terroristi pakistani nei Paesi vicini (di cui si sono molto lamentati i leader afghani e indiani) e di impegnarsi di più per distruggere i campi di addestramento di terroristi di Al Qaida e di Taleban. Nel Paese sono state ulteriormente rafforzate le misure di sicurezza, già imponenti, in seguito all’attentato di giovedì contro il consolato americano a Karachi, con la morte di quattro persone, tra cui un diplomatico Usa, e almeno 30 feriti.
A Islamabad, una città solitamente molto tranquilla, il grande Viale della Costituzione, che porta al Parlamento, ai ministeri, alla residenza presidenziale e alla zona diplomatica, è stato chiuso al traffico. Le strade che portano alla capitale sono state disseminate di posti di blocco e l’aeroporto e l’area circostante sono setacciate con cani specialmente addestrati e sofisticati dispositivi anti-terrorismo.
Bush, lasciando l’India, si è accomiatato affermando in un discorso che «India e Stati Uniti ora sono più vicini di quanto lo siano mai stati». Si è lasciato alle spalle un gigantesco Paese nuovo per lui, trascurato tradizionalmente dai suoi predecessori alla Casa Bianca nel secondo dopoguerra, protagonista di una trasformazione economica paragonabile solo a quella della Cina e forse con potenziale ancora maggiore. E con cui è stato possibile a Bush aprire un discorso nuovo e chiuderlo, per il momento, con un trattato importante, che è poi solo l’inizio di una collaborazione che potrebbe realmente alterare gli attuali equilibri politici planetari. Dico potrebbe, perché alla firma ci si è arrivati davvero molto in fretta, ma il cammino per la ratifica si presenta lungo e difficile.
Obiezioni si incrociano in ambedue i Paesi contraenti: negli Stati Uniti per motivi di principio, per motivazioni energetiche ed ecologiche, per esperienze storiche e in India perché l’atmosfera politico-culturale non è, neppure ai vertici del potere, la migliore per un esperimento di collaborazione con la Superpotenza. L’India è un Paese gigantesco e, di conseguenza, molto complicato, con molte tradizioni, molte religioni e un paesaggio politico molto variopinto. Il capo dello Stato è musulmano e ciò riflette il fatto che in India ci sono 150 milioni di islamici, un numero superato solo dall’Indonesia e superiore alla somma di quasi tutti i Paesi arabi del Medio Oriente.

La grande maggioranza degli abitanti si riconosce nella religione indù, cui si abbevera una minoranza di intransigenti e di fanatici (non è vero che l’intolleranza sia un’esclusiva delle religioni monoteiste: in India accade anche che dei politeisti diano fuoco a delle chiese e a delle moschee) ma che ha espresso un’élite rimarchevolmente laica, con ideali di tipo europeo e con una forte presenza della sinistra marxista.

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