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Bush ucciso in un film: premiato il regista

Che Bush non sia un presidente esente da critiche è ormai assodato. Che anche a destra sia sempre meno amato, pure. Ma da qui ad immaginarlo morto ce ne corre. Una trovata di cattivo gusto, degna di un fan di Al Qaida, verrebbe da pensare. E invece no. E’ di un regista britannico, Gabriel Range, che ne ha fatto un film. E che per questo è stato persino premiato. Al pubblico La morte di un presidente non è piaciuto un gran che. Proiettato in anteprima al Festival di Toronto è stato salutato con freddezza dal pubblico in sala e commentato con perplessità dai giornali, inclusi quelli della sinistra moderata americana, che certo non ha nel cuore il capo della Casa Bianca. Ma come spesso accade in questi consessi la pellicola ha finito per ottenere il Premio della Critica per l’«eccezionale qualità della realizzazione tecnica» e «per l’audacia con cui deforma la realtà per raccontare una verità più grande».
«Il falso è tutto, il tutto è falso», cantava Giorgio Gaber in una delle sue più belle canzoni. Viviamo nell’era dei reality, della fiction, di una tv che tutto confonde - valori ed egoismo, merito ed esibizionismo - e in fondo non ci meravigliamo più di nulla. Ci siamo abituati alle esagerazioni di un certo cinema, talvolta eccessivamente patriottico (a destra) o pervicacemente fazioso (a sinistra) e che ha scoperto l’arma del documentario. L’ha usata Michael Moore nel suo brillante e contestato «Fahrenheit 9/11». Era tendenzioso? Senza dubbio. Impreciso? Certo, ma perlomeno la sua denuncia riguardava fatti già accaduti: l’11 settembre, la guerra in Irak, i rapporti d’affari con la famiglia Bin Laden.
Qui invece si va oltre. L’inglese Range ha inventato il primo documentario che narra un fatto non ancora accaduto, ma così autenticamente finto da sembrare vero. Nel film vedi George Bush che esce da un hotel di Chicago e viene ucciso a colpi d’arma da fuoco. Strabuzzi gli occhi: sembra proprio lui. In parte lo è perché alcune scene sono tratte da filmati di repertorio, in parte no, sostituito da un sosia praticamente perfetto. Il tutto non in un futuro indefinito, ma il 19 ottobre 2007.
Poi la polizia cattura un siriano, accusandolo di essere un killer. L’inchiesta prosegue, le prove a suo carico tendono a sgretolarsi. Il sospetto, quasi una certezza, è che quell’uomo sia innocente. Eppure rimane dentro.
Range sostiene di aver voluto denunciare le strumentalizzazioni e gli abusi dell’Amministrazione Usa nell’ambito della guerra al terrorismo. L’accusa è plausibile, ma per sostenerla non era necessario far morire virtualmente Bush. Bastava dar ascolto alle denunce del senatore John McCain, probabile candidato repubblicano alla presidenza. Ma McCain è una persona seria e di destra. Non fa spettacolo, non fa audience.
marcello.

foa@ilgiornale.it

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